È una sfida all’ultimo barile fra Washington e Teheran, l’editoriale del direttore de La Stampa, Maurizio Molinari

È conto alla rovescia nella guerra del greggio fra Donald Trump e gli ayatollah di Teheran. Il 4 novembre entrerà in vigore la seconda, e più aspra, parte delle sanzioni americane contro la Repubblica islamica: se al momento la Casa Bianca ha impedito all’Iran l’uso dei dollari, adesso l’intento è azzerare il suo export di greggio. Poiché il petrolio costituisce l’80 per cento delle entrate dell’Iran, ciò implica la volontà di assestare a Teheran un colpo economico senza precedenti, capace di far traballare il regime. In aprile l’Iran esportava 2,5 milioni di barili di greggio, a settembre è già sceso a 1,6 milioni e se le aziende energetiche di Europa e Giappone cesseranno gli acquisti – per evitare di incorrere in pesanti sanzioni dirette – vi sarà un’ulteriore riduzione di 350 mila barili che trasformerà Cina e India nei due ultimi grandi clienti di Teheran poiché il Sud Corea ha già completamente tagliato l’import. Nel tentativo di sfruttare al massimo l’opzione Pechino-New Delhi, Teheran gli sta offrendo greggio a prezzi inferiori al mercato, posizionando l’invenduto in quattro super-petroliere da 7 milioni di barili ancorate a largo dei terminali. Più gli agenti iraniani tentano di costruirsi reti di vendita capaci di sfuggire alle sanzioni Usa, più gli ispettori del Dipartimento del Tesoro li braccano.

È una sfida all’ultimo barile fra Washington e Teheran che può innescare un aumento del prezzo del greggio da parte dell’Opec ma l’Arabia Saudita – rivale strategica di Teheran – fa sapere di essere pronta ad aumentare la produzione per affrontare un costo oltre gli 80 dollari. Il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman si è impegnato, in caso di bisogno, ad aumentare la produzione di 1,3 milioni di barili al giorno oltre gli attuali 10,7 milioni. 

L’intento della Casa Bianca è duplice: spingere Teheran ad accettare un rafforzamento dell’accordo sul nucleare del 2015, rendendolo permanente ed includendo limitazioni allo sviluppo di missili, e privare l’Iran di un flusso di denaro che alimenta in gran parte l’apparato militare, a cominciare dagli interventi dei Guardiani della rivoluzione in più scenari dalla Siria all’Iraq fino allo Yemen. Come spiega James Mattis, capo del Pentagono, «ovunque c’è instabilità in Medio Oriente se andiamo a vedere bene ci accorgiamo che il motivo sono gli iraniani» a causa di una rete di interventi, affidata ai pasdaran e coordinata dal Leader Supremo Ali Khamenei, che punta a indebolire gli Stati nazionali arabo-sunniti al fine di imporgli l’egemonia sciita. Da qui l’annuncio di John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, di voler mantenere truppe Usa in Siria «fino a quando resteranno quelle iraniane».

Le unità americane sono costituite da circa 2000 uomini, posizionati nella base di Al-Tanf, ai confini con l’Iraq, e nella regione curda del Rojava, nel Nord-Est ai confini con la Turchia. Legare la loro presenza a quella dei pasdaran agli ordini del generale Qassem Soleimani, alleato di ferro di Assad, contiene un messaggio inequivocabile: Washington è determinata a contenere l’espansione militare iraniana in Medio Oriente avvenuta sulla scia dell’accordo nucleare. Anche perché le sue punte più avanzate costituiscono minacce concrete contro gli alleati della regione: gli Hezbollah libanesi nei confronti di Israele, i ribelli sciiti contro la monarchia del Bahrein e gli houthi yemeniti nei confronti dell’Arabia Saudita. L’offensiva del greggio di Trump cela dunque l’intenzione di innescare un riassetto capace di ridimensionare le ambizioni – nucleari e regionali – dell’Iran, con il conseguente indebolimento anche della strategia del Cremlino perché Vladimir Putin ha sfruttato proprio il coordinamento con le unità di Soleimani per insediarsi in Siria e tornare protagonista in Medio Oriente.  

In tale cornice resta da vedere quali saranno le decisioni dei Paesi europei che seguirono Barack Obama nella firma dell’accordo di Vienna sul nucleare – Francia, Gran Bretagna e Germania – perché Teheran si aspetta la creazione di «un meccanismo ad hoc per evadere le sanzioni Usa», come riassume il ministro degli Esteri Javad Zarif, mentre la Casa Bianca avverte: «L’Europa deve scegliere fra l’Iran e noi». 

Maurizio Molinari, La Stampa 7 ottobre 2018

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