Quali ripercussioni a medio e lungo termine sulla struttura dell’economia globale. L’analisi di Michael Spence, premio Nobel per l’Economia.

Alcuni osservatori interpretano la guerra commerciale che il presidente americano Donald Trump ha lanciato nei confronti della Cina come una dura tattica negoziale, che punta a costringere i cinesi a conformarsi alle regole della World Trade Organization e alle norme occidentali di fare affari. Una volta che la Cina soddisferà almeno alcune delle richieste di Trump, in base a questa visione, sarà ripristinato un impegno economico reciprocamente benefico. Ma sono numerose le ragioni che mettono in dubbio uno scenario tanto benevole. La lunga guerra commerciale tra Cina e Usa è la reale manifestazione di un importante scontro tra sistemi.

L’impatto negativo della spirale ritorsiva dei dazi messi in atto dai due fronti – e soprattutto dell’incertezza che cagionano – è pienamente visibile. Per la Cina, gli effetti psicologici sono più ampi dell’impatto commerciale diretto. I titoli cinesi hanno perso il 30% dall’inizio del conflitto, e sono attese ulteriori flessioni. Poiché in Cina sono stati emessi a favore del settore fortemente indebitato delle imprese titoli di debito di tipo equity-backed, il calo dei corsi azionari ha scatenato richieste di garanzie e forzato la vendita di asset, spingendo ulteriormente al ribasso i valori azionari.

Per limitare lo sforamento negativo, i politici cinesi hanno parlato bene della forza dei mercati azionari, consolidando ed espandendo al contempo i canali di credito per il settore privato, soprattutto per le imprese di piccole e medie dimensioni in salute e meritevoli di credito, che restano svantaggiate rispetto alle controparti statali. Resta da vedere se il governo interverrà direttamente nei mercati azionari.

Oltre ai rischi a breve termine, però, sembra sempre più probabile che la guerra commerciale abbia significative ripercussioni a lungo termine, andando a toccare la struttura stessa dell’economia globale. L’ordine multilaterale basato sulle regole è stato a lungo corroborato dall’idea che crescita e sviluppo guiderebbero naturalmente la Cina ad abbracciare la governance economica in stile occidentale. Ora che tale idea non ha più fondamento, siamo sul punto di affrontare un prolungato periodo di tensione sui diversi approcci in tema di commercio, investimenti, tecnologia e sul ruolo dello Stato nell’economia.

Mentre i governi occidentali tendono a minimizzare il loro intervento nel settore privato, la Cina enfatizza il controllo dello Stato sull’economia con tutte le implicazioni che ne conseguono. I sussidi, ad esempio, sono difficili da individuare nel settore pubblico, eppure sarebbe fondamentale per mantenere quello che in Occidente sarebbe considerato un contesto competitivo uniforme.

Inoltre, gli investimenti diretti esteri sono spesso effettuati da aziende pubbliche, e quindi frequentemente impacchettati di aiuti esteri – un approccio che può mettere in svantaggio le aziende con sede in Occidente quando presentano offerte per gli appalti nei paesi in via di sviluppo. In mancanza di una qualsiasi versione della legge anti-corruzione americana, la Cina è altresì disposta a incanalare gli IDE verso quei paesi ed enti che le aziende Usa potrebbero evitare.

E poi c’è Internet. Malgrado gli obiettivi comuni in merito alla riservatezza dei dati e alla cyber-sicurezza, Usa e Cina hanno regimi normativi molto differenti, creati, ancora una volta, dal conflitto di idee su quale sia il ruolo appropriato dello Stato.

Sul fronte tecnologico, la Cina continuerà anche a perseguire la sua strategia “Made in China 2025”, il cui obiettivo è quello di lanciare il paese a livello globale in aree che i suoi leader considerano essenziali per la crescita economica e la sicurezza nazionale. Anche se da un lato le politiche sempre più aggressive dell’America sul fronte del commercio, degli investimenti e del trasferimento tecnologico potrebbero rallentare questo processo, dall’altro la Cina raggiungerà i propri obiettivi investendo pesantemente in ricerca e sviluppo, diffusione tecnologica e capitale umano.

Data la profonda competizione strategica tra Cina e Usa – ora esacerbata dalla guerra commerciale in atto – non dovremmo aspettarci un ritorno a una qualche variante dell’ordine del secondo dopoguerra, basato sui valori e sui sistemi governativi occidentali. L’ordine globale potrebbe essere definito meno dalle regole condivise che da un equilibrio di potenza economica, tecnologica e militare.

Ad esempio, è probabile che ci siano restrizioni più rigorose sul trasferimento tecnologico e sugli investimenti, soprattutto per questioni legate alla sicurezza nazionale. I paesi potrebbero anche perseguire una maggiore auto-sufficienza economica, con più implicazioni per le catene di forniture globali e il commercio.

Potrebbe ancora essere plausibile un sistema multilaterale aperto; per i paesi più piccoli e/o più poveri, è di vitale importanza. Ma un sistema di questo genere dovrà tenere conto delle considerazioni sull’equilibrio di poteri riguardanti Stati Uniti e Cina, e potenzialmente altre grandi economie come l’Unione europea e l’India.

In un mondo in cui i modelli di governo dei maggiori attori divergono nettamente, sarà una sfida notevole realizzare un sistema in grado di funzionare. C’è il rischio che i paesi più piccoli si trovino a dover scegliere tra due sfere di influenza incompatibili.

Con l’amministrazione Trump senza alcun entusiasmo per qualsiasi sorta di multilateralismo, forse nella speranza di poter preservare il vecchio ordine multilaterale, nessuno tenta di sviluppare alternative fattibili. L’unica cosa che ha fatto recentemente l’amministrazione americana è stata quella di cambiare la propria posizione negativa sugli aiuti esteri, presumibilmente in risposta ai massicci investimenti cinesi nei paesi in via di sviluppo.

Se hanno intenzione di prendere parte a delle guerre commerciali, i governi dovrebbero avere una visione chiara e pragmatica su dove vogliono arrivare. Per come stanno ora le cose, la Cina è irremovibile sulle questioni territoriali e sul ruolo centrale del Partito comunista cinese nell’economia, nonché sul suo obiettivo di raggiungere, o di sorpassare, gli Usa in campo tecnologico. Ma gli Usa non sembrano aver deciso esattamente per che cosa combattere.

Ovviamente si possono facilmente discernere molti possibili scenari. Gli Stati Uniti intendono ridurre il deficit commerciale bilaterale e rimpatriare i posti di lavoro del manifatturiero. Per fare ciò, vuole che la Cina elimini i sussidi, l’obbligo di condividere le tecnologie con i partner locali e altre forme di “imbrogli”, definisca condizioni eque per gli investitori stranieri nel mercato cinese, e adotti pratiche di governance più occidentali. Un punto cruciale è che gli Stati Uniti intendono anche mantenere la propria superiorità tecnologica e militare.

Eppure resta poco chiara in che misura questi obiettivi siano negoziabili. Di conseguenza, la guerra commerciale somiglia tanto a un gioco con una lista di desideri che non una dura tattica negoziale. Tutto ciò non farà che prolungare il conflitto, ridurre ulteriormente la fiducia e, nel lungo termine, rendere difficile ripristinare qualsiasi parvenza di cooperazione mutualmente benefica, con significative ripercussioni a lungo termine per l’economia globale.

Michael Spence –  Project-Syndicate ottobre 2018

Michael Spence è un economista statunitense, insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica. Oggi insegna alla New York University. 

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