L’impatto di una possibile recessione cinese sul pianeta
Alcune riflessioni di Kenneth Rogoff, professore di Politica Economica all’Università di Harvard
Quando la Cina alla fine attraverserà l’inevitabile recessione in termini di crescita – che quasi sicuramente sarà amplificata da una crisi finanziaria, dato il massiccio indebitamento dell’economia – in che modo questo inciderà sul resto del mondo? Con la guerra commerciale messa del presidente americano Donald Trump ai danni della Cina proprio mentre la crescita registra già un rallentamento, questa domanda è del tutto fondata.
Le stime, come quelle previste dal Fondo monetario internazionale nelle sue valutazioni di rischio del paese, suggeriscono che un rallentamento economico in Cina finirà per colpire tutti. Ma il dolore acuto, secondo il Fmi, sarà concentrato e confinato più a livello regionale rispetto a quanto previsto in caso di una profonda recessione negli Stati Uniti. Sfortunatamente, questo sembra essere un pio desiderio.
Prima di tutto, l’effetto sui mercati di capitale internazionali potrebbe essere ben superiore rispetto a quanto suggerirebbero i collegamenti con i mercati di capitale cinesi. Tuttavia, per quanto incerti possano essere gli investitori globali sulle prospettive di crescita dei profitti, un colpo alla crescita cinese renderebbe la situazione ancor più tragica. Benché sia vero che gli Stati Uniti siano ancora di gran lunga i maggiori importatori di beni di consumo finali (un’ampia fetta di importazioni cinesi del manifatturiero riguarda i beni intermedi che finiscono per essere inglobati nelle esportazioni verso Usa ed Europa), le aziende straniere godono tuttora di ingenti utili sulle vendite in Cina.
Gli investitori oggi temono anche i crescenti tassi di interesse, che non solo pesano su consumi e investimenti, ma riducono anche il valore di mercato delle società (soprattutto le aziende tecnologiche) le cui valutazioni dipendono pesantemente sulla crescita futura dei profitti. Anche in questo caso una recessione cinese potrebbe peggiorare la situazione.
Apprezzo l’usuale pensiero keynesiano secondo cui il rallentamento di una qualsiasi economia causerebbe un rallentamento della domanda aggregata mondiale, e quindi provocherebbe una pressione al ribasso sui tassi di interesse globali. Il pensiero moderno è, però, più sfumato. Gli elevati tassi di risparmio asiatici degli ultimi vent’anni sono stati un fattore significativo nel basso livello generale dei tassi di interesse reale (depurati dell’inflazione) sia negli Stati Uniti che in Europa, grazie al fatto che i mercati di capitale asiatici sottosviluppati semplicemente non riescono ad assorbire in modo costruttivo le eccedenze di risparmio.
L’ex presidente della Federal Reserve americana Ben Bernanke definì questo fenomeno, spesso oggetto di studio, come una componente chiave del global savings glut, ossia degli eccessi di risparmi globali. Invece di portare a una riduzione dei tassi di interesse reali globali, un rallentamento cinese su tutta l’Asia potrebbe quindi paradossalmente spingere ovunque i tassi di interesse al rialzo – soprattutto se una seconda crisi finanziaria asiatica porterà a una netta contrazione delle riserve delle banche centrali. Quindi, per i mercati di capitale globali, una recessione potrebbe facilmente rivelarsi una doppia sventura.
Considerato che un rallentamento delle esportazioni verso la Cina si rivelerebbe negativo per molti paesi, un significativo incremento dei tassi di interesse globali sarebbe decisamente peggiore. I leader dell’Eurozona, soprattutto la cancelliera tedesca Angela Merkel, ottengono meno credito di quanto avrebbero bisogno per mantenere politicamente ed economicamente insieme la fragile moneta unica contro le drastiche previsioni economiche e politiche. Ma il loro compito si sarebbe rivelato praticamente impossibile se non fosse stato per i tassi di interesse globali ultra-bassi che hanno consentito alle autorità dell’Eurozona politicamente paralizzate di schivare le necessarie cancellazioni e ristrutturazioni del debito nella periferia.
Quando i paesi avanzati attraversarono la crisi finanziaria dieci anni fa, i mercati emergenti si ripresero relativamente in fretta, grazie ai bassi livelli debitori e ai prezzi forti delle commodity. Oggi, però, i livelli di debito sono cresciuti in modo significativo, e un netto aumento dei tassi di interesse globali non farebbe che estendere le odierne crisi in fermento oltre il manipolo di paesi (comprese Argentina e Turchia) che sono già stati colpiti.
E neanche gli Stati Uniti sono immuni. Per il momento gli Usa possono finanziare i propri disanvanzi da trilioni di dollari a un costo relativamente basso. Ma la durata pressoché breve del suo indebitamento – sotto i quattro anni se si integrano i bilanci del Tesoro e della Federal Reserve – implica che un aumento dei tassi di interesse spingerebbe presto la sua capacità di far fronte ai debiti a ridurre le spese necessarie in altre aree. Allo stesso tempo, anche la guerra commerciale di Trump rischia di compromettere il dinamismo dell’economia americana. La sua natura in qualche modo arbitraria e politica la rende almeno tanto dannosa per la crescita americana quando le normative da Trump così orgogliosamente eliminate. Quelli che pensavano che la posizione di Trump sul commercio fosse perlopiù pura millanteria della campagna elettorale dovrebbero iniziare a preoccuparsi.
La buona notizia è che i negoziati commerciali spesso sembrano irrisolvibili fino all’ultima ora. Usa e Cina potrebbero raggiungere un accordo prima che entrino in vigore il 1° gennaio i dazi punitivi di Trump. Un accordo di questo tipo, si spera, rifletterebbe un atteggiamento più maturo da parte della Cina rispetto ai diritti di proprietà intellettuale – in modo analogo a quanto accaduto negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo. (Negli anni di crescita elevata dell’America, gli imprenditori americani si facevano pochi scrupoli a rubare le invenzioni brevettate dal Regno Unito).
Una recessione in Cina, amplificata da una crisi finanziaria, costituirebbe la terza fase del debt supercycle, ossia del ciclo di accumulazione dei debiti, iniziato negli Stati Uniti nel 2008 e spostatosi in Europa nel 2010. Finora le autorità cinesi hanno fatto un lavoro lodevole nel posticipare l’inevitabile congiuntura. E solo quando si verificherà questa congiuntura, il mondo scoprirà che l’economia cinese conta più di quanto si pensi.
Kenneth Rogoff, project-syndicate novembre 2018