L’intervista al regista in occasione dell’uscita del suo ultimo film “L’ufficiale e la spia”, ispirato all’affaire Dreyfus (da Repubblica)

L’intervista finisce ancora prima di cominciare. Quando Roman Polanski scopre che abbiamo visto L’ufficiale e la spia attraverso un link, decide di sospendere subito la conversazione. «Mi ci sono voluti sette anni per fare questo film e lei lo guarda sul telefonino?». Non serve rispondergli che la visione era avvenuta su regolare e ampio schermo tv e che il sacrilegio era stato provocato dalle esigenze organizzative della produzione. Polanski rimane a lungo con la testa fra le mani, esterrefatto dalla barbarie. Poi propone una soluzione. Un altro appuntamento, a Le Club 13, sala creata da Claude Lelouch, per una vera proiezione. Quando arriviamo, il regista appare visibilmente emozionato nell’introdurre agli invitati, tra cui l’ex presidente Nicolas Sarkozy e Carla Bruni, l’opera che rievoca come un thriller lo scandalo giudiziario di fine Ottocento nel quale Alfred Dreyfus, capitano ebreo francese, fu ingiustamente condannato per alto tradimento.

Polanski, 86 anni, non è una persona facile, nel privato come nel pubblico. «Ora possiamo finalmente parlare del film» dice ricevendoci nuovamente nell’ufficio di Avenue Montaigne, dietro gli Champs-Elysées. Le foto ai muri raccontano mezzo secolo di carriera cinematografica. Sugli scaffali innumerevoli statuette e premi. Vicino alla scrivania un grande quadro ispirato all’Origine del mondo con il volto lussurioso della moglie, l’attrice Emmanuelle Seigner. L’amico produttore Luca Barbareschi è venuto a Parigi per accompagnare la promozione de L’ufficiale e la spia, vincitore del gran premio della giuria alla Mostra di Venezia. «È un’opera coraggiosa anche per l’Italia» dice Barbareschi «in un Paese come il nostro che non ha memoria». Polanski, jeans e scarpe alla moda, si muove come un folletto nella stanza. Fa vedere una foto sul telefono, sfoglia un libro alla ricerca di una citazione.

Perché ha voluto così tanto realizzare questo film? 

«Ho capito vent’anni fa, girando Il Pianista, che avere un progetto su un argomento importante mi procura maggiore soddisfazione. Ho girato tante commedie, e non le rinnego, anzi. Ma è diverso fare qualcosa che ha un significato profondo. Cambia anche per gli attori e la troupe, si crea uno slancio formidabile».

Cosa l’ha portata a interessarsi all’affaire Dreyfus?

«Da giovane avevo visto un film americano dedicato a Emile Zola (lo scrittore francese pubblicò il celebre testo J’Accuse per difendere l’innocenza di Dreyfus, ndr). Ero già abbastanza grande da trovare il film mediocre, ma la scena della degradazione militare inflitta a Dreyfus mi sconvolse. Sapevo che un giorno avrei voluto girare qualcosa su quel momento storico. Sono stati scritti più di cinquecento libri sull’affaire ma al cinema non c’è quasi nulla».

È stato il libro di Robert Harris a darle finalmente lo spunto giusto? 

«Robert ha scritto il libro dopo che avevamo già incominciato a discutere del film. Ci rendevamo conto di quanto fosse difficile raccontare la storia in soggettiva. Dreyfus era sì un innocente ma non era un personaggio simpatico, né particolarmente interessante. L’altro ostacolo per la sceneggiatura era il fatto che l’ufficiale venne mandato a scontare la pena su un’isola remota. Erano condizioni disumane certo, ma non puoi fare un film solo su un uomo che soffre. Alla fine Robert ha avuto l’idea di prendere il punto di vista del colonnello Picquart e ha scritto il libro».

Il protagonista è dunque l’uomo che ha sfidato la gerarchia battendosi per l’innocenza di Dreyfus. 

«Picquart non è un eroe in senso assoluto. Ha seguito la sua coscienza. Era un Giusto».

Aveva idee antisemite? 

«Era culturalmente anti semita. È quello che ho vissuto in Polonia, dove c’è un antisemitismo più o meno tollerato da secoli, non necessariamente violento. Non ci sono stati pogrom in Polonia e nemmeno in Francia dove l’antisemitismo è stato virulento a parole. Oggi invece sentiamo di donne ebree giustiziate nelle loro case, di giovani torturati per denaro perché gli ebrei sarebbero tutti ricchi. Quel che succede in Francia fa paura. Sembra che non abbiamo imparato niente, che la Storia giri a vuoto».

È un film che parla al presente? 

«Tutto ciò che racconto potrebbe accadere di nuovo, in altre forme ovviamente. Con i mezzi elettronici di oggi non avrebbe senso falsificare una lettera manoscritta. L’affaire Dreyfus è però ancora attuale per un altro aspetto che mi sta particolarmente a cuore».

Quale?

«Dreyfus non è caduto in una trappola. È stato vittima di un errore. Un errore che l’esercito non poteva ammettere. Ancora oggi le istituzioni, in particolare la stampa, fanno di tutto per non riconoscere di aver sbagliato. Quando un giornalista scrive qualche idiozia, la smentita è ignorata o pubblicata in forma sintetica. Si può finire con gli avvocati, con un processo. Sono cose che ho vissuto».

Parla della causa contro Vanity Fair che in un articolo ha raccontato di sue presunte avances a una donna subito prima del funerale di sua moglie Sharon Tate, uccisa nel 1969 dai seguaci di Manson?

«Mi ci sono voluti due anni per vincere contro il settimanale americano. Tempo dopo sono andato a bere una cosa con uno dei dirigenti della redazione. Mi ha detto: avete avuto ottimi avvocati, i nostri non erano molto motivati. E io ho risposto: ma quello che avevate scritto non era vero! Il mio interesse per l’affaire Dreyfus nasce anche da vicende personali, come questa».

Qualcuno sostiene che lei voglia paragonarsi all’ufficiale francese ingiustamente perseguitato.

«Chi lo dice è un idiota. Non mi paragono a Dreyfus, le nostre storie sono completamente diverse. Ancora una volta è la stampa che cerca di alimentare un dibattito sul nulla. No, grazie, su questo non comincio neppure a parlare».

C’è un filo ideale che lega questo film a Il Pianista, nel quale parlava della Shoah? 

«Ho sempre pensato che un giorno avrei girato un film sulla Seconda guerra mondiale, o sui primi mesi dopo l’inizio del conflitto. Non solo perché ne conservo molti ricordi. Ero convinto che avrei potuto farlo bene. L’idea mi ha fatto compagnia per anni. E quando ho avuto fra le mani l’autobiografia di Wladyslaw Szpilman, ho avuto finalmente l’intuizione giusta. Per Dreyfus è successa la stessa cosa. Avevo in testa quella scena della degradazione militare. Sentivo che prima o poi avrei fatto qualcosa ma ho dovuto aspettare molto».

Era diventata una sorta di ossessione? 

«In un certo senso, anche se faccio una certa attenzione. Spesso i film che i registi sognano per anni sono deludenti. Gli esempi sono molti».

La scena della degradazione militare di Dreyfus nella corte degli Invalides è quella che apre il film. 

«Tra la folla radunata agli Invalides c’era anche Theodor Herzl, quel giorno si convinse della necessità di creare uno Stato per il popolo ebraico. Quanto a me, è stato durante le riprese che mi sono reso conto della violenza inflitta a Dreyfus davanti a ventimila soldati e a migliaia di persone che gli urlavano “Sporco ebreo”. Dev’essere stato terribile».

Louis Garrel, nel ruolo di Dreyfus, è irriconoscibile.

«Quando ho pensato a lui i miei amici pensavano fossi impazzito. Ma è vero che con i suoi boccoli non era facile immaginarselo nel ruolo di un militare perseguitato. Un regista intuisce cose che altri non riescono a vedere: c’è una somiglianza impressionante tra Garrel e Dreyfus».

E la scelta di Jean Dujardin per interpretare il colonello Picquart?

«È un attore che ama fare casino, recita spesso in commedie ma sapevo che era quello giusto. E’ stato bravissimo, ed è anche una persona umanamente squisita».

Anche in questo film c’è Emmanuelle Seigner. È importante avere sua moglie vicino? 

«Scrivendo la sceneggiatura non ho pensato di costruire un ruolo per Emmanuelle. Solo dopo mi sono accorto che poteva essere lei a interpretare l’amante di Picquart. Dopo che lei aveva divorziato i due non si sono mai sposati: avevano un certo gusto per la trasgressione».

Sul set era presente anche sua figlia Morgane.

«Si è occupata del backstage. Abitualmente non amo avere qualcuno che riprende mentre io sto girando. Ma uno dei produttori ha avuto l’idea di coinvolgere mia figlia sapendo che non avrei potuto rifiutare».

“Risalendo il filo dei ricordi, mi accorgo che la frontiera tra realtà e immaginazione è stata sempre disperatamente confusa”. È l’inizio della sua autobiografia. Lei vive ancora così? 

«I bambini pensano che qualsiasi impresa sia possibile. E forse sono rimasto anche io un po’ bambino. Non avrei mai osato intraprendere alcuni progetti se mi fossi soffermato sulle probabilità di successo. Ma forse è stata anche una questione di fortuna».

Bernard Pivot ha scritto: “La vita di Polanski è una sceneggiatura straordinaria”. È d’accordo? 

«Qualsiasi vita può essere un film, dipende come viene raccontata. Ma è vero, ho molto vissuto. E ora sono qui: ho una moglie, dei figli, da quasi quarant’anni la mia vita è un po’ meno agitata. Naturalmente è più interessante parlare di qualcuno che ha vissuto tragedie ma non m’interessa pensare a me in questi termini».

Ha visto C’era una volta a… Hollywood, il film di Quentin Tarantino che rievoca i suoi primi anni a Los Angeles e il massacro di sua moglie Sharon Tate? 

«No, non voglio davvero vederlo. Non voglio che mi si chieda cosa penso del film, né trovarmi nella posizione di dover esprimere un giudizio negativo o positivo».

Ma Tarantino gliene ha parlato? Avrebbe voluto che lo facesse? 

«No, non ne abbiamo parlato. È un regista, fa quello che vuole. Devo rispettarlo».

Cosa pensa delle dichiarazioni pronunciate contro di lei dalla presidente della giuria di Venezia, Lucrecia Martel? 

«Sinceramente ho già vissuto tanti momenti così, non ci faccio più caso. Sono stato invece felice di ricevere il premio della critica Fipresci perché è lo stesso che ho avuto per il mio primo film, Il Coltello nell’acqua».

Dopo lo shock per la morte di Tate ha vissuto un periodo in Italia. Cosa ricorda di quegli anni?

«Ho abitato per quattro anni a Roma e credo di parlare abbastanza bene la vostra lingua (passa dal francese all’italiano). Amo l’Italia, a Roma ho passato anni meravigliosi, mi ricordo ancora l’indirizzo: via Appia Antica 201. Un’epoca davvero bella, sono andato via nel 1975, poco prima dell’inizio delle Brigate Rosse».

Ha un nuovo progetto di film? 

«Vorrei almeno una volta nella vita finire un film e avere già qualcos’altro che bolle in pentola. Purtroppo non succede mai. Penso che per molti registi sia così. La costruzione di un film è totalizzante. Non rimane il tempo neppure per dedicarsi alla famiglia».

Anais Ginori, Repubblica 25 ottobre 2019

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