Il treno della Pennsylvania (c’era una volta in America…)
Ho sentito parlare dell’America fin da bambino dai racconti di mio nonno materno, che si chiamava Giambattista. Spesso, nelle sere d’inverno, quando nelle case del paese la televisione non era ancora diffusa, insieme alla famiglia raccolta intorno al grande focolare della casa patriarcale, lo ascoltavo rapito mentre descriveva a forti tinte le sue giornate di lavoro nelle miniere di carbone della Pennsylvania. Raccontava di massacranti turni di lavoro sotto terra, in una condizione di costante pericolo, “con la morte sempre davanti agli occhi”, come ripeteva spesso, e con baracche di legno per ricovero. Ricordava perfino, con tragico realismo, di avere a volte riportato alla luce pezzi di corpo di minatori morti sotto terra.
Ma riferiva anche di episodi allegri e piacevoli, come quando, complici la giovane età e le tempeste ormonali, la domenica usciva con i suoi compagni di lavoro e insieme cercavano di abbordare le ragazze del posto. La frase di rito era sempre la stessa: “Will you go along with me?”, che nel loro inglese maccheronico voleva significare: “Vuoi fare una passeggiata con me?”; o come quando prendevano in giro un compaesano più attempato che, benché stesse in America da qualche anno, non riusciva a spiccicare una sola parola d’inglese, ad accezione di una frase (“Give me car!”) che ripeteva come un mantra ogni volta che, nel lavoro in miniera, doveva chiedere al compagno di turno che gli avvicinasse il carrello da riempire con palate di carbone appena estratto. Appena lo vedevano arrivare, i più giovani si davano di gomito e si ripetevano a turno, sottovoce: “Give me car…Give me car”; e scoppiavano a ridere.
Ricordo ancora i nomi delle località in cui era vissuto: Minersville, Port Carbon, Altoona. I primi erano poco più che villaggi sorti accanto alle miniere, mentre Altoona doveva essere già allora una popolosa cittadina non molto lontana, nonché un importante snodo ferroviario. Più raramente nominava Pittsburgh, parlandone come di una grande città lontana, ma non troppo. Raccontava di aver montato una volta su un treno che era diretto a Cleveland. Raccortava anche di sparatorie a cui aveva assistito in città, come quella volta che aveva visto crollare a terra un poliziotto assai conosciuto, un omone che, colpito dai proiettili dei malviventi, aveva camminato a lungo prima di stramazzare a terra: una scena impressionante che mi è parso di rivedere nel celebre film di Sergio Leone C’era una volta in America.
Benché i suoi ricordi fossero colorati di fatica e di sacrificio, mi pareva di cogliere sempre nelle sue parole una grande nostalgia. Non si trattava solo di rimpianto per la lontana giovinezza: c’era dell’altro. Era cresciuto, come tanti figli di contadini poveri del tempo, con il mito dell’America come promessa di benessere e di riscatto da una eredità di miseria. Benché si trovasse in un remoto posto della provincia americana, pure, aveva visto schiudersi davanti ai suoi occhi di giovane un orizzonte nuovo, un modo diverso di vivere. Parlando dell’America a volte sospirava, come se pensasse a un paradiso perduto o a una bellissima donna conosciuta e che non avrebbe più rivisto. Si leggeva nel suo viso il rammarico per aver perso il treno della sua vita, quello che passa una volta sola. E proprio di un treno si era trattato.
Era partito in America a soli sedici anni, alla vigilia della Grande Guerra, chiamato da una sorella maggiore che stava lì con il marito da qualche anno. Era andato “come turista”, come ripeteva spesso, con un permesso che doveva rinnovare ogni sei mesi. Arrivato a New York al termine di un viaggio in nave durato un mese, aveva dovuto fare la quarantena a Ellis Island, dove i medici americani, a sentir lui, facevano visite scrupolosissime (“Ti guardavano perfino… alle parti basse”, sussurrava con un certo pudore). Si era poi diretto ai campi minerari della Pennsylvania. Aveva lavorato molto alacremente. Il direttore della miniera (“u boss”, come lui lo chiamava) lo aveva preso a ben volere (“That’s all right, John”, gli diceva dandogli confidenzialmente una pacca sulla spalla).
Non avendo la cittadinanza americana e essendo trascorsi i cinque anni richiesti per ottenerla, aveva deciso, un giorno in cui alla miniera non si lavorava, di andare a farne richiesta nella vicina città di Altoona. Si era alzato di buon’ora, ma nonostante ciò, aveva perso il treno; e da allora alla cittadinanza non aveva più pensato. Dopo qualche tempo, si era ripromesso di tornare in Italia, magari di conoscere una ragazza da sposare, e poi ripartire in America. Era il 1922 quando decise di partire, non aveva ancora compiuto ventiquattro anni. Non era informato, come tutti i suoi compaesani e compagni di lavoro, della situazione di instabilità politica che in quel periodo regnava in Italia e che di lì a poco avrebbe portato al potere il Fascismo. Qualcosa però aveva sospettato, perché mentre insieme a tanti altri italiani si imbarcava al porto di New York, qualcuno aveva loro gridato: “Ma che tornate a fare in Italia, là ci sta la rivoluzione!”. Non ci aveva dato peso e, comunque, era troppo tardi.
Tornato che fu, poco dopo ricevette la cartolina di precetto per il servizio militare, che non aveva fatto, e al cui obbligo doveva ottemperare essendo ancora un cittadino italiano. Prestò servizio a Cecina Marina, in provincia di Livorno, inquadrato nel “13° Reggimento di Artiglieria Pesante Campale”. Ci teneva a precisarlo, perché era il reparto in cui mettevano gli abruzzesi, “persone toste”. Finita la naia, dovette rassegnarsi a non poter più tornare in America: Mussolini, giunto al potere, aveva chiuso le frontiere a tutti coloro che non erano cittadini americani.
Nel frattempo aveva conosciuto mia nonna, con la quale si sarebbe sposato di lì a poco. Essendo un giovane probo e laborioso (“lavorator e co’ la testa n’desta”, come si dice dalle nostre parti), utilizzò i risparmi dell’America per acquistare qualche pezzo di terra da coltivare e per costruire insieme al fratello una modesta casetta, che io ho avuto l’onore di ereditare. Quante volte lo sentii inveire contro la malasorte che gli aveva fatto perdere quel treno. L’America se la sognò per tutta la vita e ancora da vecchio, quando un emigrato tornava al paese in vacanza, dava fondo a tutta la sua memoria pur di scambiare qualche parola in inglese (“in americano”, come diceva lui). Così, per nostalgia… Benedetta America!
Giuseppe Lalli, com.unica 15 dicembre 2019