L’AQUILA – Quando mi dissero che volevano organizzare una spedizione alla casa dei fantasmi e mi invitarono ad aggregarmi, più che indifferente, mi dimostrai perplesso. Nessun accenno di entusiasmo e sapevo perché: non avevo mai amato certi contatti, millantati o reali, con l’aldilà; avevo sempre creduto che non bisogna disturbare i morti e che, se un contatto è lecito con loro, anzi raccomandato, è quello della preghiera perché la loro anima riposi in pace. Quelle poche volte che avevano tentato di coinvolgermi in catene attorno a tavoli lievitanti in attesa della voce roca del defunto, mi ero sempre schermito e l’avevo fatta franca.

Strollechi” e chiromanti mi avevano sempre messo in ansia solo a sentirli nominare, per non dire di coloro che vantando poteri paranormali scrivevano su fogli bianchi ghirigori incomprensibili sotto dettatura dei defunti. Mi sono chiesto più volte il perché di questa repulsione e la risposta è stata sempre quella: non amo che qualcuno mi predica il futuro. Odio, addirittura, chi tenta di farlo, anche solo per dirmi il bene. Come le gitane dalla gonna lunga e rigonfia e cariche d’oro, che mi coglievano di sorpresa nelle fiere di paese rifilandomi un cornetto portafortuna e prendendomi la mano per farne lettura. La reazione è stata e resta sempre la stessa: uno strattone per divincolarmi e un profondo respiro di sollievo quando quelle smettono l’assillo. Sono talmente in armonia con me stesso, che non avverto alcun bisogno di conoscere il mio domani. Mi basta ricordare il passato, anche addolcendone, con la memoria del tempo, gli aspetti meno gradevoli, e vivere il presente… Il futuro, come dicevano i nostri saggi vecchi, è nelle mani di Dio.

Ma quella volta le insistenze furono così tante che alla fine acconsentii e mi unii alla combriccola. Era notte fonda quando ci ritrovarono alla spicciolata presso il Grande Albergo. In silenzio come ladri imboccammo Via XX Settembre e attraversammo il ponte di Sant’Apollonia. La casa era subito dopo, a sinistra, immersa nella vegetazione impazzita dall’abbandono e orridamente buia, senza nemmanco il minimo conforto di uno spicchio di luna. La spavalderia, strada facendo, aveva ceduto il posto ad un’ansia sempre più simile alla paura. Avresti detto di sentire il battito del cuore di ciascuno e tutti insieme parevano colpi provenienti da sotterranei cavernosi.

Rattrappiti poco oltre il cancello aspettammo, senza sapere di preciso che cosa. “È dopo mezzanotte che si sente”, fiatò trepidante il capobanda. Fino a che dalla torre di Palazzo non batterono i rintocchi della storia: novantanove, come i castelli che fondarono L’Aquila. E a quel punto accadde l’imprevedibile. Una serie di urli di disperazione accompagnarono l’apparire di una forma bianca su una finestra appena appena illuminata dalla luna che si era fatta largo tra le nuvole. E non restammo un attimo di più, riguadagnando il cancello e allontanandoci trafelati dalla casa maledetta. Era bastato un barbagianni dal piumaggio bianco infastidito dagli intrusi a metterci in fuga. Ma questo lo si seppe molto tempo dopo, quando un ornitologo svelò l’arcano a quei giovani che, riconquistato l’ardire, si scompisciarono dalle risate.

Non ebbe spiegazione, invece, quanto accadde in un palazzo del centro storico che un caro amico aveva ricevuto in eredità da vecchie zie. “Dicono che ci si senta, disse al frate cappuccino con il quale si confidava, io non sto tranquillo quando giro per quelle stanze, puoi darci una benedizione?”. Il frate fece molto di più: volle toccare di persona il mistero e un giorno chiese la mia compagnia per restare lì una notte intera. Una ripida scalinata saliva dal cortile al portoncino interno, aperto e sbarrato il quale subito appariva una lunga teoria di stanze, un pianoforte a coda in un angolo della prima, che si concludeva con quella approntata con due lettini per la notte. Dette le preghiere serali ci si scambiò la buonanotte e si sprofondò nel sonno.

Una candela era stata lasciata accesa sul comodino, tra i due letti. Le note di una fuga di Bach incominciarono a rallegrare il mio sogno. Note che si fecero sempre più scomposte tra le dita di un pianista folle, fino a svegliarci contemporaneamente. La candela s’era spenta ma non per consunzione. Inutilmente il frate provò a riaccenderla, mentre nella prima stanza, lontana, il pianoforte continuava a suonare impazzito. Dormivamo vestiti. Saltammo giù dal letto e imboccammo di gran carriera l’uscio mentre il pianista folle e senza corpo continuava a pigiare sui tasti inseguendoci con il suo concerto misterioso fino a che, serrato il portone esterno, la musica cessò.

Era da poco trascorsa la mezzanotte. Ci lasciammo senza una parola. Lui in Convento a Santa Chiara, io nella mia casa di Via Crispomonti. Il resto della notte, ce lo dicemmo dopo, lo passammo in bianco. A benedire quella casa antica, Padre Andrea andò poi da solo e tutto ebbe fine, tanto che è abitata ancora dagli eredi in piena tranquillità. Suggestione? Verità? Nel primo caso la suggestione trovava sicuramente un campo fertile, ma nel secondo? A cinquant’anni di distanza tutto comunque appare più chiaro. Tra suggestione e verità a vincere è il diritto della memoria. Il ricordo sereno dei nostri cari, che non sono così spietati con noi da divertirsi a metterci paura. La memoria di chi amammo e ci amò non può essere che dolce e tenera. Solo Mammona ha interesse a spaventarci. L’amore mai.

Mario Narducci, com.unica 3 luglio 2020

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