La scomparsa di Franco Loi, il poeta che cercò la bellezza
Ci ha lasciato anche Franco Loi. Il poeta dei dialetti di una Milano sempre da raccontare. Una Milano che può avere il cuore del padre sardo, una Milano oltre le nebbie che l’anima emiliana della madre. Astrologo e mago, alchimista e profetico. Da Dante a Dostoevskij a Belli. La bellezza e iil male in in un viaggio onirico di studio e di scavi di vita e di pagine. Franco Loi con il suo dialetto ha ricreato un mondo. Il suo mondo di ricordanze infinite.
Franco Loi seppe ascoltare il tempo della vita attraversando la storia e la lingua. La storia passa, si attraversa, si consuma. Restano i dettagli. La lingua resta. È nella lingua che si conquista l’immaginario o la visione della bellezza.
Così:
“Cume se fa a parlà de la belessa?
La furma che sa dís al fiâ del cör?”
Ed ora n lingua italiana: “Come si fa a parlare della bellezza?
La forma che sa dire al fiato del cuore?”
È la bellezza che cerca il volto delle “cose” in Loi. Quella bellezza che il poeta ha posto come contrapposizione al male. Esperto e lettore di Dostoevskij non poteva essere diversamente per Loi.
La sua poesia è un avvolgere costante del tempo che misura la cifra degli anni in linguaggio, in parole, in frasi. Circondati dal labirinto i linguaggi sono una dissolvenza religiosa. Anarchico religioso, dopo aver vissuto il suo comunismo oltre, si radica scardinando il superfluo dalle esistenze del moderno e la poesia é il dettaglio mecessario di essere racconto in una metafisica che è geografia dell’anima. Scrive nei suoi versi il diario. Infatti dal saggio “Poesia e religione”, in “La poesia e il sacro” del 1996 a “La lingua della poesia” dell’anno prima (1995) il suo accostarsi alla religiosità rende la parola una diaristica intermittenze dell’anima.
Forse un po’ di proustiana memoria accompagna sempre la sua invisibile e palpabile malinconia. Ed ecco un suo incipit “Aria de la memoria”, Poesie scelte (1973-2002), che riporta un mondo poetico di antropologie sommerse e mai dissolte. Fondamentale resta “Poesie d’amore” con le incisioni di Ernesto Treccani, risalente al 1974. Ma è con “Stròlegh”, del 1975, che la sua visione poetica diventa corpus emozionante. Poi il mosaico lirico è mosaico di tempo con “Album di famiglia del 1998 e con “Amur del temp”, del1999. Fino a raggiungere il superamento degli orizzonti con “Nel scûr” del 2013 e “La torre” del 2020. Un poeta sempre oltre. Oltre il fumo e le nebbie. Era nato a Genova il 21 gennaio del 1930. È morto a Milano il 4 gennaio del 2021.
Nel suo linguaggio alla ricerca della poesia c’era sempre un “fare spirituale”, la cui spiritualità non è soltanto una testimonianza ma un essere quotidiano. Come nei versi che recitano: “Mi sono perduto tra le scale, cercavo le porte / e ho trovato un silenzio che aspettava, / nuovo, pieno di me e del cercare la sorte…”. Cercarsi nel silenzio. Una metafisica non dell’oltre. Dell’anima sì. Perché? Perché per Loi la scrittura é stata sempre il cuore dell’uomo. Come quando ebbe a dire: “…avevo letto Dante. Ma io Dante l’ho letto proprio come un romanzo. Dante per me è stata una scoperta straordinaria… Perché la poesia è come il sogno. Non è che tu vai a letto la sera e dici: ‘Stanotte mi sognerò una bella donna’ oppure ‘mi sognerò il mare, la campagna…’. No, tu vai a letto e sogni quello che il tuo inconscio ti suggerisce. Non sei tu con la testa. Non è la tua consapevolezza mentale che scrive la poesia”.
Questo era Franco Loi. Un poeta, viaggiatore nell’anima e nell’antico dell’onirico.
Pierfranco Bruni, com.unica 6 gennaio 2021