Uno studio di Felice Vinci e Arduino Maiuri sul mito di Re Artù pubblicato sulla rivista scientifica americana “Journal of Anthropological and Archaeological Sciences”

La prima menzione della mitica “Spada nella Roccia” del ciclo arturiano si trova nel Merlino di Robert de Boron, poema medioevale francese databile tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, in cui si legge che Re Artù ottenne il trono britannico estraendo una spada, che successivamente sarebbe stata chiamata Excalibur, da un’incudine posta su una pietra. Questo singolare racconto può farci legittimamente chiedere se in esso non si nasconda un profondo significato allegorico.

Osserviamo anzitutto che la spada estratta da re Artù corrisponde a quella che San Galgano nel 1180 avrebbe infisso in una roccia – dove si trova tuttora – all’interno dell’Eremo di Montesiepi, nelle vicinanze dell’abbazia cistercense di San Galgano, situata nelle Colline Metallifere a 30 km da Sienai. Ricordando che le leggende arturiane nacquero anch’esse in ambiente cistercense, fa riflettere da un lato il fatto che il nome stesso di Galgano sia accostabile a quello di Galvano – il nipote di Artù che nel Perceval di Chrétien de Troyes è il detentore della spada Excalibur – dall’altro che nell’abbazia di San Galgano durante il Medioevo fosse attiva una fonderia per la produzione e lavorazione del ferro estratto dalla pirite (un minerale che abbonda nelle Colline Metallifere).

A dare ulteriori motivi di riflessione sta anche il fatto che il fiume Merse, che scorre nei pressi dell’Abbazia, trova un suggestivo omonimo nel fiume Mersey, nell’Inghilterra nord-occidentale.

A questo punto è lecito ipotizzare che l’espressione “estrarre la spada dalla roccia” sia una metafora, riferita alla capacità di fabbricare una spada, “estraendola” dalla pietra contenente il minerale di ferro. Insomma il racconto della spada nella roccia potrebbe essere decrittabile in chiave metallurgica, ossia come una metafora delle attività degli antichi fabbri (che fabbricavano le spade producendo e lavorando il ferro a partire dai minerali contenuti in certe rocce), se non addirittura come una sorta di loro “marchio di fabbrica”. Oltretutto il nome stesso della spada Excaliburii ricorda i Chalybes, famosi fabbri dell’antichitàiii.

Osserviamo subito che con una chiave analoga è stata proposta, in un nostro recente studioiv, la soluzione del millenario indovinello biblico di Sansone: “Dal divoratore è uscito il cibo e dal forte è uscito il dolcev – riferito ad uno sciame d’api e al miele da lui trovati a Timna nella carcassa di un leone che in precedenza lo aveva assalito ruggendo e che aveva ucciso a mani nude – che per millenni ha sfidato la comprensione degli studiosi. La sua apparente bizzarria dà adito al sospetto che in realtà si tratti di una ben congegnata metafora, in cui potrebbe nascondersi un preciso significato: rivelatore al riguardo è stato il fatto che nella Valle di Timna, nel sud di Israele, nel secolo scorso sono state scoperte le tracce di una importante attività mineraria di estrazione del rame, protrattasi ininterrottamente dal neolitico fino al Medio Evo, e sono stati riportati alla luce i resti di un tempio egizio dedicato a Hathor, la dea delle miniere, costruito alla fine del XIV secolo a.C. per i minatori egiziani, la cui importanza è attestata da migliaia di geroglifici, sculture e gioiellivi. Da qui è nata l’idea che l’indovinello di Sansone sia interpretabile in chiave metallurgica, quale ingegnosa metafora del forno fusorio: esso infatti sembra “divorare” il minerale con il fuoco – producendo un rumore sordo che ricorda sia il ruggito del leone, sia il ronzio delle api attorno all’arnia – ma poi ne sgorga il rame, che ha un colore simile a quello del miele selvatico.

Inoltre il tempio di Timna indica una dimensione concettualmente analoga a quella dell’abbazia di San Galgano, dove, come si è visto, in un contesto religioso si svolgevano attività metallurgiche.

D’altronde il singolare rapporto fra queste ultime e le api si ritrova sia nel mito greco della nascita di Zeus – in cui insieme ai Cureti, legati ai misteri della metallurgia, sono presenti certe gigantesche apivii – sia persino nel Kalevala finnico, in un passo dove si racconta il mito dell’origine del ferro, secondo cui il mitico fabbro Ilmarinen per temprare il metallo ricorre al miele dell’ape Mehiläinenviii. Per inciso, qui il ferro viene fatto scaturire da un latte nero, uno rosso e uno bianco, che non a caso corrispondono ai tre colori tradizionali dell’alchimia, nigredo, rubedo e albedo, a loro volta riconducibili alle varie fasi dell’incandescenza, con il passaggio graduale dalla temperatura ambiente al “calor rosso” e poi al “calor bianco”.

Inoltre nel mondo vedico, nell’area sacrificale, oltre ai due fuochi principali (uno quadrangolare, “maschio”, l’altro circolare, “femmina”) ve ne è un terzo, il fuoco affamato, considerato un “fuoco divoratore” che ha funzioni di guardia e che il Dumézil identifica con il romano Vulcanoix. Ma il fuoco dei forni fusori, necessari per costruire le armi che proteggono la comunità, rientra proprio in questa fattispecie, a cui ben si attaglia quella metafora del “divoratore” che si ritrova identica nell’indovinello di Sansone, a sua volta accostabile alla leggenda della spada nella roccia.

Nel mondo greco, un racconto analogo a quello dell’eroe biblico è quello di Eracle che uccide il leone di Nemea a mani nude, proprio come Sansone. Ma anche questo è un “leone” molto strano, perché la sua pelliccia è del tutto invulnerabile a qualsiasi tipo di arma; tuttavia alla fine Eracle dopo una furibonda lotta riuscirà a strangolarlox.

D’altronde Ercole, l’Eracle romano, a sua volta ammazza a mani nude il mostruoso gigante Caco, che gli aveva sottratto una mandria di buoi: lo insegue, lo raggiunge nella grotta del Colle Aventino dove abita, e infine lo uccide soffocandolo. Ma Caco, poco prima di essere afferrato, comincia ad emettere fumo e fiamme, al punto che «la sua grande grotta si riempì di una nuvola nera»xi. Qui viene ancora più naturale l’accostamento al “leone metallurgico” accoppato da Sansone da cui poi esce il “miele”, straordinaria metafora del rame che sgorga dal forno fusorio, confermato dalle “fiamme che Caco emetteva nel buioxii, ultima memoria, forse, di una primordiale fucina sulle falde dell’Aventino.

Sempre riguardo ad Ercole, una interessante variante del motivo della spada infissa nella roccia e poi estratta si trova in un mito riportato da Servio: «Una volta Ercole, di ritorno dalla Spagna, capitò tra quella gente (i Cimini). Allorché qualcuno lo sfidò a dimostrare la sua forza, si dice che conficcò nel terreno la sbarra di ferro con cui si allenava. Ma poiché la sbarra si era incastrata e nessuno riusciva più a spostarla, gli chiesero di rimuoverla; così fece, e ne seguì un grande flusso d’acqua che creò il Lago Cimino»xiii. Effettivamente questo lago di origine vulcanica, corrispondente all’odierno Lago di Vico, ha dato nome alle ciminiti, rocce contenenti minerali di ferro: se ne può dedurre un’antica attività metallurgica in quel territorio, analoga a quella che abbiamo riscontrato nelle Colline Metallifere, situate un po’ più a nord.

A questo punto sembra plausibile che in chiave metallurgica sia interpretabile anche il mito giapponese secondo cui il dio-eroe Susanoo – figura che Giorgio de Santillana accosta a Sansonexiv (di cui sembra riecheggiare anche il nome) – uccide e smembra un terribile drago nella cui coda trova una spada, Kusa-nagi, che è tuttora considerata una delle tre insegne imperiali del Giappone.

Del resto la triade eroe-spada-drago è anche attestata sia nel panorama mitologico germanico, con l’eroe Sigurd, il quale da un lato ha un padre, Volsung, che estrae la spada Gram dall’albero dove l’aveva infissa il dio Odino, e dall’altro uccide il drago Fafnir, sia in Grecia, con il mito di Teseo, che come Artù scopre la sua origine regale ritrovando la spada nascosta da suo padre sotto una roccia, per poi uccidere il terribile Minotauro.

In conclusione, l’atto di estrarre la Spada dalla Roccia può essere interpretato come metafora delle attività metallurgiche, con specifico riferimento alla capacità di realizzare una spada “estraendola” da una pietra contenente minerale di ferro. Questa interpretazione trova varie conferme, come abbiamo verificato analizzando diversi esempi tratti da culture anche molto lontane nello spazio e nel tempo, quali lo stranissimo leone nella cui carcassa Sansone trova miele e api, il leone nemeo ucciso da Eracle, il grottesco Caco sputafuoco soffocato da Ercole, le api che assistono alla nascita di Zeus, il fuoco “divoratore” nei rituali del mondo vedico, il fabbro finlandese Ilmarinen che tempera il ferro con il miele, l’eroe giapponese Susanoo che trova una spada nella coda di un mostruoso drago, per non parlare della spada estratta da Volsung da un albero e di quella dissotterrata da Teseo che, esattamente come quella di Artù, ne attesta l’origine regale. È altresì probabile che in futuro ulteriori studi e approfondimenti estendano queste correlazioni anche ad altre mitologie.

D’altronde le grandi distanze che separano tra loro queste culture sembrano attestare l’antichità di tali concezioni, avvalorando l’ipotesi dell’esistenza di una civiltà preistorica globale diffusa su tutto il pianeta con la navigazione, favorita a quell’epoca dall’Optimum climatico post-glaciale che, rendendo navigabile il Mare Artico durante l’estate, consentiva il passaggio dall’Atlantico al Pacifico attraverso un’agevole rotta polare alternativa al lontanissimo (e pericolosissimo) Capo Horn: di tale civiltà Platone potrebbe averci lasciato l’ultima memoria attraverso il mito di Atlantide.

In ogni caso, questa interpretazione della leggenda della Spada nella Roccia sottolinea l’importanza della lavorazione dei metalli in tutto il mondo antico.

Felice Vinci e Arduino Maiuri, com.unica 5 gennaio 2024

*Qui l’articolo originale in lingua inglese.


i V. Albergo, San Galgano: eremo e abbazia, Tellini, Pistoia, 1982.

ii La versione latinizzata, Caliburnus, è attestata nella Historia Regum Britanniae di Geoffrey di Monmouth.

iii F. Muller, Une étymologie grecque d’«excalibur», «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», 2, 2016, pp. 79-95.

iv F. Vinci, A. Maiuri, A Hypothesis of Solution of Samson’s Riddle, «Athens Journal of Mediterranean Studies», 9, 2023, pp. 271-278.

v Gdc. 14:14.

vi Cfr. B. Rothenberg, Researches in the Arabah, 19591984: The Egyptian Mining Temple at Timna, Thames & Hudson, London, 1988.

vii Variante segnalata da Károly Kerényi, Miti e misteri, Einaudi, Torino, 1950, pp. 413-423.

viii Kalevala, runo IX.

ix G. Dumézil, La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano, 1977, pp. 284−285.

x Ps.-Apoll., Bibl. 2, 74-76.

xi Virg., En. 8, 258.

xii ib., v. 259.

xiii Serv., ad Aen. 7, 697.

xiv G. de Santillana, H. von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi, Milano, 2003, p. 205.

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