Dai successi alla guida della Lazio alla panchina della Nazionale inglese fino alla dignità dell’ultimo saluto, il ricordo di un grande allenatore

Sven-Göran Eriksson si è congedato dal mondo come aveva vissuto, con una dignità silenziosa e un’eleganza sobria, tipica degli uomini del nord. “I have a cancer. That’s it,” ha dichiarato nel documentario che ha segnato il suo addio al calcio e alla vita. Un saluto semplice, ma carico di quella profondità che lo ha contraddistinto come uomo e come allenatore. Oggi, all’età di 76 anni, l’allenatore svedese ha concluso il suo viaggio terreno per un tumore al pancreas, lasciandoci il ricordo di un uomo che ha saputo trasmettere il rispetto, il suo valore più caro, a chiunque lo circondasse: dai giocatori ai presidenti, dai tifosi ai giornalisti.

La carriera di Eriksson è costellata di successi, ma ciò che lo rendeva unico non erano soltanto le vittorie sul campo, bensì la sua capacità di calmare e unire, anche nei momenti più difficili. Era dotato di un carisma unico, molto particolare, che derivava da un rispetto profondo per l’altro, per l’essere umano al di là delle sue capacità tecniche o fisiche. “Devo rispettarti anche se non hai un buon piede destro, anche se sei lento, anche se non hai mai giocato in A,” ripeteva, mostrando un’etica che lo ha reso amato e ammirato ovunque andasse.

La sua avventura italiana è iniziata nell’estate 1984 quando fu chiamato da Dino Viola per offrirgli la panchina della Roma. In Svezia aveva guidato del Goteborg, portandolo alla conquista di una Coppa Uefa e successivamente aveva ottenuto altri importanti successi con il Benfica. Arrivato nella capitale per sostituire il connazionale Nils Liedholm, Eriksson si era già messo in mostra con un tipo di gioco basato su difesa alta e un tipo zona più dinamica rispetto a quella compassata del “Barone”, in cui il pressing aveva un peso fondamentale. Sfiorò lo scudetto nella stagione 1985-86, al termine di un’entusiasmante rincorsa alla Juventus, alla quale recuperò ben otto punti nel girone di ritorno. Un sogno che tuttavia svanì in una drammatica sconfitta all’Olimpico per 3-2 contro il Lecce, ultimo in classifica e già retrocesso. Fu un fallimento che segnò profondamente l’allenatore, ma che non intaccò la sua immagine di professionista esemplare. Dopo l’esperienza alla guida dei giallorossi (con i quali conquistò comunque una Coppa Italia), allenò la Fiorentina, nuovamente il Benfica e per cinque anni la Sampdoria di Mancini e Vialli. Ma fu la Lazio del presidente Cragnotti (che guidò dal 1997 al 2001) il palcoscenico della sua consacrazione. Con i biancocelesti, Eriksson riuscì a costruire una squadra formidabile, forse la più forte della storia della seconda squadra della capitale, capace di vincere lo scudetto nel 2000. Sotto la sua guida, la Lazio vinse anche la Coppa delle Coppe e la Supercoppa europea, cementando il suo posto nella storia del calcio italiano e internazionale.

Il successo non lo cambiò mai. Anche quando sedeva sulla panchina dell’Inghilterra (il primo straniero alla guida della nazionale dei Tre Leoni), rimase lo stesso uomo umile di sempre, guidando la rappresentativa fino ai quarti di finale in due Mondiali e un Europeo. Gli inglesi, notoriamente critici con i loro allenatori, lo rispettavano per il suo approccio calmo e razionale, anche se le semifinali gli sfuggirono sempre, spesso per una questione di rigori. Subito dopo l’annuncio della morte da parte della BBC, è stato ricordato in un post anche dal principe William, presidente onorario della Federcalcio inglese. “Sono addolorato per la morte di Eriksson, ha scritto.Lo avevo incontrato diverse volte quando era commissario tecnico dell’Inghilterra. Sono sempre rimasto impressionato dal suo carisma e dalla sua passione per il calcio. I miei pensieri vanno alla sua famiglia e ai suoi amici. Un vero gentleman del calcio”. I cinque anni sulla panchina dei Tre Leoni dello svedese sono stati celebrati anche dal Premier Sir Keir Starmer, che ha sottolineato “il suo enorme contributo al calcio inglese”. Tributi a Eriksson sono giunti anche dai vertici della Fa, e da moltissimi club della Premier League, non solo le squadre che ha allenato.

Il viaggio di Eriksson nel mondo del calcio lo portò anche in Messico, in Cina e nelle Filippine, ma il cuore rimase sempre legato a Torsby, il tranquillo villaggio svedese dove era nato nel 1948 e dove ha scelto di trascorrere i suoi ultimi anni, ascoltando i silenzi e riflettendo sulla vita. “Ho avuto una bella vita. Forse troppo bella,” ha detto, con quella sincerità che lo ha sempre contraddistinto. Oggi, mentre ci lasciamo alle spalle la notizia della sua scomparsa, rimangono le sue parole, pronunciate con quella semplicità disarmante: “Grazie di tutto, agli allenatori, ai giocatori, ai tifosi. È stato un viaggio fantastico. Addio”. Parole che, come lui, risuonano senza particolare clamore, ma con una forza che lascia un segno profondo, di un uomo che ha vissuto e amato il calcio con passione e rispetto, fino all’ultimo respiro.

Sebastiano Catte, com.unica 26 agosto 2024

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