Il significato originario di Tizio e di Prometeo
Uno studio di Felice Vinci pubblicato sulla rivista scientifica americana “Journal of Anthropological and Archaeological Sciences”
Abstract
Partendo da un precedente articolo in cui avevamo sviluppato l’ipotesi che i mitici Campi Elisi si trovassero sull’Isola Hawaii in Polinesia, l’esame dei due passi in cui Omero menziona il gigante Tizio, unitamente al confronto della sua figura con quella di Prometeo (il dio del fuoco che con Tizio ha in comune lo stesso tipo di punizione, un uccello rapace che gli divora il fegato), suggerisce l’ipotesi che questi due personaggi, entrambi chiamati “figli della Terra”, abbiano tratto origine da metafore di vulcani del tipo “a scudo”, di cui i vulcani hawaiani sono gli esempi più noti. Colpisce anche l’affinità di Tizio e Prometeo con Ti’iti’i, il dio del fuoco polinesiano che portò il fuoco al popolo di Samoa, il quale da un lato corrisponde a Prometeo, dall’altro ha un nome accostabile a quello di Tizio (nonché a quello di Thiazi, che nella mitologia nordica è un gigante reo di un crimine analogo a quello per cui Tizio fu punito). Ne consegue che all’origine di Tizio, Prometeo, Ti’iti’i e Thiazi (e forse anche dei Titani) potrebbe esservi stata una qualche entità mitica ispirata a quel tipo di vulcani, che per vie diverse ci è giunta da una remota preistoria e va quindi aggiunta alle corrispondenze già emerse tra il mondo greco e quello polinesiano. Non solo: ciò ha portato ad indagare sulla singolare corrispondenza tra il nome di Pompei, la cui etimologia è tuttora controversa, e quello di un’isola vulcanica polinesiana chiamata Pohnpei, dove si trovano gli imponenti resti di una città megalitica. Sono emersi diversi indizi che questa omonimia non sia affatto casuale, il che confermerebbe la plausibilità dell’ipotesi secondo cui sarebbe esistita un’antichissima civiltà, la cui memoria ci è stata tramandata da Platone, la quale in epoca preistorica si sarebbe diffusa su tutta la Terra grazie alla navigazione (che, secondo i più recenti studi, durante l’età megalitica ebbe un notevole sviluppo).
Introduzione
In questo articolo, che riprende le conclusioni di un precedente studio1 in cui abbiamo proposto una nuova ipotesi sulla reale ubicazione dei Campi Elisi, cercheremo di dimostrare che alcuni personaggi della mitologia greca, come Tizio e Prometeo, potrebbero essere stati originariamente ispirati da un particolare tipo di vulcani in eruzione. A tal fine abbiamo utilizzato una metodologia consistente in un nuovo esame critico non solo delle fonti classiche ma anche di altri contesti letterari, che sottolinea alcuni aspetti a cui gli studi di settore non avevano ancora dedicato particolare attenzione.
Conviene innanzitutto riassumere alcuni aspetti salienti dell’articolo sopracitato. Nel mondo polinesiano non mancano indizi che sembrano attestare antichi contatti con popolazioni caucasiche, quali la presenza di megaliti e l’aspetto fisico di molti indigeni incontrati dai primi esploratori europei2, per non parlare di miti, leggende, usanze, caratteristiche e nomi di divinità, e perfino racconti tradizionali che curiosamente richiamano sia l’Iliade che l’Odissea. È sorprendente anche la corrispondenza tra il nome della danza tradizionale polinesiana, la hula (chiamata anche hura, data l’oscillazione tra L e R che si riscontra nei dialetti locali), e il termine greco choros, “danza” (in particolare, la danza tipica di Tahiti si chiama Hori Tahiti). Non meno significativo è il caso dei canti tradizionali polinesiani, chiamati mele, nome identico al greco melos, “canzone, canto epico”, in tutte le sue sfumature di significato.
In questo quadro, che sembra delineare una civiltà marittima preistorica diffusa su tutta la Terra, alcune peculiari caratteristiche attribuite dai poeti greci ai Campi Elisi (tra cui, ma non solo, la straordinaria mitezza del clima, e in particolare un piacevolissimo vento rinfrescante) sembrano essere tipiche dell’Isola Hawaii – dove l’area circostante alla bellissima baia di Hilo mostra sorprendenti convergenze tra mitologia greca e polinesiana – al punto da suggerire la collocazione di questi luoghi mitici proprio là, “ai confini del mondo”, dove secondo Omero, Esiodo e Pindaro regnava Crono, affiancato dal “biondo Radamanto”, dopo essere stato detronizzato da Zeus. Infatti, secondo Pindaro, là “fiori dorati splendono da bellissimi alberi (…) per coloro che intrecciano le loro mani con corone e ghirlande secondo i saggi consigli di Radamanto”3: questa è un’immagine deliziosamente “hawaiana”, dove quei “fiori dorati” che sbocciano sugli alberi alludono all’ibisco giallo hawaiano, un arbusto che produce un bellissimo fiore dorato, dal 1988 considerato il fiore ufficiale dello Stato delle Hawaii.
Per i numerosi altri esempi che si possono fornire a supporto di questa collocazione, rimandiamo all’articolo citato in precedenza, dove ci siamo anche soffermati sulle sorprendenti relazioni tra il mondo polinesiano e quello dei Feaci, i mitici navigatori dell’Odissea. Al riguardo, quel che più colpisce sono le straordinarie corrispondenze tra i tipici monumenti polinesiani, i marae – luoghi sacri costituiti da una piattaforma rettangolare pavimentata in pietra e un perimetro segnato da alte pietre, con al centro o su un lato una pietra verticale, anch’essa considerata sacra, in uno spazio aperto di fronte al mare dove si svolgevano i rituali religiosi, politici e sociali degli antichi polinesiani – e la particolarissima struttura dove secondo Omero si riunivano in assemblea i Feaci, chiamati nausiklytoi (“famosi per le navi”): “Lì è il loro luogo di riunione presso il bell’altare di Poseidone, munito di enormi pietre conficcate in profondità nella terra”4. Ciò che appare molto significativo è anche il fatto che queste corrispondenze non si limitano alle strutture, ma si riscontrano anche nel loro utilizzo: infatti, durante l’adunanza (che si svolgeva in riva al mare) in cui i Feaci accolsero Odisseo, considerato un ospite d’onore, l’Odissea racconta che ebbe luogo una danza di giovani accompagnata dal canto di un aedo con la cetra5. Ma ancora oggi i Polinesiani eseguono le loro danze durante la cerimonia di benvenuto agli ospiti, che si svolge nel marae ed è caratterizzata da raffinati discorsi e canti tradizionali, esattamente come usavano fare i Feaci omerici.
In quell’articolo avevamo anche notato che Ino, la dea del mare che salva Odisseo da una tempesta e gli consente miracolosamente di approdare nella terra dei Feaci, ha molti tratti in comune con Hina, la grande dea polinesiana legata al mare e alla luna: perfino il nome attribuito da Omero a Ino, Leukotheē, “la Dea bianca”, corrisponde al fatto che in lingua polinesiana hina-hina significa “bianca”6. Da tutto ciò è ragionevole dedurre che i mitici Feaci, i “famosi navigatori” dell’Odissea, siano l’ultimo ricordo di un’antichissima civiltà marinara, precedente al mondo della guerra di Troia, che si era estesa su buona parte degli oceani del pianeta grazie all’Optimum Climatico Olocenico (HCO, detto anche Optimum Climatico Atlantico)7, che assicurò un clima eccezionalmente mite per migliaia di anni proprio in concomitanza con il fiorire della civiltà megalitica (ricordata dalla mitologia greca come la felice Età dell’Oro governata da Crono). Ciò è confermato dal fatto che in un recente articolo sul megalitismo europeo Bettina Schulz Paulsson proclama con forza l’esistenza di “una avanzata tecnologia marittima e della navigazione nell’era megalitica (…) Le competenze marittime, le conoscenze e la tecnologia di queste società devono essere state molto più sviluppate di quanto si sia pensato finora”8.
Inoltre a quell’epoca, grazie a temperature più elevate di quelle odierne, era possibile raggiungere facilmente il Pacifico dall’Oceano Atlantico grazie a un’agevole rotta polare per il mare Artico, che in estate era navigabile: le navi seguivano tutta la costa settentrionale della Groenlandia e del Canada fino allo Stretto di Bering e poi costeggiavano l’Alaska, da dove poi l’aliseo di nord-est le spingeva verso l’Isola Hawaii, dove approdavano alla Baia di Hilo (cioè i Campi Elisi, di cui infatti Omero ricorda il vento fresco9, ovvero l’aliseo tipico delle Hawaii). Ciò evitava la necessità di doppiare il lontanissimo e pericolosissimo Capo Horn, considerato un vero e proprio cimitero delle navi a causa delle tempeste, delle correnti, degli insidiosi bassifondi rocciosi e degli iceberg, come invece erano costretti a fare gli europei (spagnoli, francesi, inglesi e così via) quando, già diversi secoli prima della rivoluzione industriale, con i loro velieri riuscirono comunque ad estendere i loro imperi coloniali fino agli arcipelaghi della Polinesia.
Quanto poi alla plausibilità di viaggi transoceanici durante la preistoria, ce ne siamo già occupati in un precedente articolo10 volto a individuare la reale ubicazione delle mitiche Colonne d’Ercole, in cui abbiamo verificato che nelle opere di Plutarco e Platone vi sono corretti riferimenti alla geografia dell’Atlantico e del continente situato oltreoceano. In particolare, Plutarco menziona sia quest’ultimo che le isole che si trovano lungo la sua rotta, per poi soffermarsi su un antico insediamento di Elleni, da lui chiamati “Continentali”11, nella regione canadese del Golfo del San Lorenzo, di cui indica la latitudine con sorprendente precisione. Allo stesso modo, anche Platone, oltre ad annunciare con grande enfasi l’esistenza di un continente al di là dell’Atlantico – riguardo al quale ci assicura che in un’epoca precedente esso “era navigabile”12 – menziona le isole situate lungo la rotta per raggiungerlo.
D’altro canto, il ricordo di antichi insediamenti europei sul versante americano dell’Atlantico settentrionale (forse riconducibili all’estrazione del rame dalle antiche miniere di Isle Royale, l’isola più grande del Lago Superiore) sembra emergere da vari indizi, quali la persistenza di miti e leggende paragonabili a quelli del Vecchio Mondo e i tratti caucasici di alcuni nativi americani, che sembrano corroborare l’idea di antichi contatti tra le due sponde opposte dell’Atlantico. Tutto ciò spiega immediatamente le straordinarie convergenze riscontrate tra miti, leggende, folklore e costruzioni megalitiche diffuse su tutto il pianeta.
Ma ora è giunto il momento di entrare nel vivo del presente articolo: a tal fine prenderemo innanzi tutto in esame i due passi in cui Omero menziona il gigantesco Tizio, “figlio di Gea”, cioè della Terra.
Tizio, il gigante “figlio della Terra”
Il primo di questi passi, entrambi contenuti nell’Odissea, si riferisce al momento in cui Alcinoo, il re dei Feaci, promette a Odisseo che una nave feacia lo riporterà a casa: “anche se essa si trovasse molto oltre l’Eubea, di cui quelli del nostro popolo che la videro, quando accompagnarono il biondo Radamanto a vedere Tizio, figlio di Gea, dicono che è la più lontana; vi andarono e senza fatica compirono il viaggio, e lo stesso giorno tornarono a casa”13. Dunque qui Tizio viene messo contemporaneamente in relazione con i Feaci e con “il biondo Radamanto”, considerato il signore dei Campi Elisi sia da Omero14 che da Pindaro15.
Invece nell’altro passo in cui Tizio viene menzionato si trova nell’Ade, dove sconta una terribile punizione: “E vidi Tizio, il glorioso figlio di Gea, disteso a terra per nove pletri; e due avvoltoi sedevano, uno da ogni lato, e gli strappavano il fegato, penetrandogli le viscere; né poteva difendersi con le mani, perché aveva osato violentare Latona, moglie di Zeus, che stava andando a Pito passando per Panopeo con i suoi bei prati”16. Ora, dato che nell’antica Grecia il pletro era un’unità di lunghezza pari a circa 30 metri, e quindi “nove pletri” qui non sembra indicare altro che una dimensione enorme, sproporzionata, viene spontaneo chiedersi chi, o cosa, fosse in realtà questo gigantesco essere, perfino più grande del dio Ares (il quale disteso a terra “copriva sette pletri”)17.
Qui possiamo subito escludere che il poeta si riferisca ad un essere umano, come conferma anche il fatto che i Feaci condussero Radamanto “a vedere” (epopsómenon) Tizio, non certo a parlare con lui. A questo punto, per capire di cosa si tratti, sembra ragionevole supporre che questo episodio possa essere letto nei termini di un’antica metafora poetica, il cui significato originario si è perduto nei secoli. Ma che tipo di metafora? Considerando da un lato l’ambientazione hawaiana del mondo di Radamanto, e dall’altro il fatto che il tormento di Tizio è identico a quello di Prometeo, cioè un dio del fuoco (su cui torneremo tra poco), si può ipotizzare che dietro l’immagine del gigante Tizio, questo “figlio della Terra” che Radamanto va a vedere a bordo di una nave, si nasconda uno dei grandi vulcani polinesiani.
Infatti, secondo il sito web dello Hawai’i Volcanoes National Park, questi vulcani – e in particolare quelli dell’Isola Hawaii, dove abbiamo localizzato quei Campi Elisi il cui signore era Radamanto – sono chiamati “vulcani a scudo” perché producono colate laviche che, una volta solidificate, “formano montuosità dolcemente inclinate, simili a scudi”18 dalla particolare forma convessa, che ricordano l’aspetto dei lobi del fegato (Fig. 1), anche per il colore. Con il susseguirsi delle eruzioni, la lava si raffredda e si solidifica formando nuovi “lobi”, che si accumulano, sovrapponendosi via via su quelli precedenti.
Per inciso, il fatto che il sito appena citato definisca il vulcano più grande dell’Isola Hawaii “un gigante addormentato” si cala magnificamente in questo quadro, confermando la immutabile propensione della mente umana per certi tipi di metafore e di immagini, a dispetto dei millenni.
Vorremmo ancora sottolineare che questa identificazione è supportata anche dal fatto che Omero, in entrambe le sue citazioni di Tizio, lo chiama sempre “figlio di Gea”, cioè della Terra (il che per un vulcano è più che naturale), e il suo eterno tormento nell’Ade, che da sempre viene localizzato in un mondo sotterraneo, sembra a questo punto evocare la memoria e l’immagine delle convulsioni e degli spasimi del grande gigante sdraiato, straordinaria metafora delle scosse sismiche e dei boati connessi alle eruzioni vulcaniche.
Si potrebbe perfino supporre che in una di esse sia stata distrutta un’antica città, il cui ultimo ricordo, oscurato dai millenni trascorsi, potrebbe essere giunto fino a noi sotto la metafora della violenza fatta a Latona, madre di Apollo. Che essa, madre di una divinità solare, fosse la dea protettrice di quella città, che non riuscì a proteggere dal fuoco prodotto da un “figlio della Terra”?
D’altronde, è con un tipo di metafora del tutto analoga che a questo punto si potrebbe rileggere la storia di Thiazi – non a caso presentato come “un terribile gigante” nell’Edda nordica19 – il quale nelle sembianze di un’aquila rapì la dea Idhunn e poi perì tra le fiamme. Qui colpisce anche la singolare corrispondenza tra il nome di Tizio e quello di Thiazi, che è anche perfettamente coerente con i capelli biondi di Radamanto e con il suo nome nordico, accostabile al termine islandese ráðamanður (“comandante, capo, persona eminente”) e al danese rådmand (“consigliere”). Quanto a Tizio-Thiazi, lo si potrebbe forse collegare ai vocaboli latini titio (“tizzone, brace ardente”) e attitiare (“ravvivare” il fuoco, da cui derivano parole come l’italiano attizzare, il francese attiser e lo spagnolo atizar).
Non solo: potremmo forse associare questa stessa radice al nome dei mitici Titani, anch’essi figli di Gea, poiché Omero, nell’unica occasione in cui li menziona, ne sottolinea la dimensione sotterranea: “Coloro che stanno sotto il Tartaro, chiamati Titani”20. I Titani – forse accostabili agli angeli caduti dal cielo nella tradizione giudaico-cristiana – richiamano alla mente i vulcani dell’Islanda e quelli dell’Anello di Fuoco nell’Oceano Pacifico. Questi ultimi erano probabilmente ben noti ai navigatori dell’era megalitica, i quali, sfruttando la navigabilità dell’Oceano Artico durante l’Optimum Climatico Olocenico, scorrazzavano fra l’Atlantico settentrionale (chiamato dai Greci “Mare di Crono”) e gli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico, lasciando ovunque tracce della loro presenza, come megaliti, miti, leggende e folclore che si ritrovano, spesso sorprendentemente simili tra loro, sparsi per tutto il mondo.
Di essi l’ultima memoria forse rimane nel mito di Atlantide, tramandatoci da Platone, secondo il quale questa civiltà marittima preistorica nacque e si sviluppò su una grande isola dell’Atlantico, che a nostro aviso corrisponde all’Isola Bianca menzionata nel Mahabharata indiano: “Un’isola di grande splendore sulle rive settentrionali dell’Oceano di Latte (…) Gli uomini che la abitano hanno una carnagione bianca come i raggi della luna”21. Abbiamo diverse buone ragioni per identificarla con la Groenlandia22, considerando anche il fatto che nell’età megalitica l’Optimum Climatico assicurava condizioni di vita molto migliori di quelle odierne anche alle latitudini più alte23.
Tizio, Prometeo e Ti’iti’i, dio del fuoco polinesiano
In una leggenda samoana troviamo la figura mitologica di Ti’iti’i, che riesce a portare il fuoco alla popolazione di Samoa dopo una battaglia con il dio del terremoto24, mentre in altri racconti è protagonista di vicende molto simili a quelle, riguardanti il semidio Maui, che si riscontrano in altre culture insulari del Pacifico. In sostanza Ti’iti’i è un dio del fuoco che da un lato ha un nome accostabile a quello di Tizio e dall’altro ci riporta a Prometeo.
A sua volta, Prometeo (che Omero non menziona mai) da un lato ruba il fuoco agli dei e lo porta agli uomini, come Ti’iti’i, e dall’altro è condannato a un tormento identico a quello di Tizio nell’Odissea. Infatti, in una tragedia di Eschilo, il dio Hermes annuncia a Prometeo che “Un’aquila affamata di carne strapperà senza pietà un gran pezzo del tuo corpo; un ospite indesiderato che banchetterà tutto il giorno, divorando il tuo fegato, la nera e sanguinolenta prelibatezza del banchetto”25. Quanto a quell’aquila, lo scrittore romano Igino la chiama aethonem aquilam, “aquila di fuoco”26. Questa immagine dell’“aquila di fuoco” che piomba dall’alto potrebbe ben riferirsi ad un vulcano in eruzione, in grado di emettere fino a cento metri d’altezza spruzzi di lava, che poi come un uccello rapace ripiombano sulla lava precedente già solidificata, tra spaventosi boati e terrificanti scosse sismiche.
D’altra parte poco fa abbiamo visto che Thiazi, il terribile gigante nordico con un nome accostabile a quello di Tizio e Ti’iti’i, rapisce Idhunn assumendo le sembianze di un’aquila. A questo punto c’è anche da chiedersi se il vocabolo greco aiglē, che significa “luce, splendore, fiaccola”, non sia direttamente correlabile al latino aquila, al francese aigle e all’inglese eagle, tutti col significato di “aquila”. Per inciso, “aquila” in Greco si dice aetos (a sua volta accostabile al verbo aithō, “ardere, bruciare”), identico al samoano aeto e allo hawaiano ʻaeto, “aquila”.
Ma è sempre il Prometeo di Eschilo a suggerire un’altra analogia con Tizio, quando dichiara che sua madre è “Themis, o Gaia (la Terra), un’unica persona con molti nomi”27. Riguardo al rapporto di Prometeo con l’attività vulcanica, c’è chi ha ambientato la vicenda di Prometeo sul Monte Caucaso o sul Kazbek28, due picchi vulcanici nelle montagne del Caucaso. Ma finora solo gli astronomi avevano pensato di attribuire a Prometeo le caratteristiche di un vulcano vero e proprio, quando hanno pensato di dare il suo nome ad un vulcano attivo situato su Io29, uno dei satelliti di Giove (quindi Eschilo, a rigor di termini, non lo avrebbe chiamato “figlio della Terra”!).
Il legame di Prometeo con il fuoco, stretto al punto che nella mitologia greca era considerato un dio del fuoco30, è attestato anche da Pausania: “Nell’Accademia c’è un altare di Prometeo, che è il punto di partenza di una corsa che si compie tenendo in mano fiaccole accese”31. Inoltre il rapporto di Prometeo con il fuoco (pŷr in greco) a nostro avviso potrebbe suggerire l’ipotesi che anche la radice del suo nome, il cui significato è tuttora sconosciuto, potrebbe essere legata al fuoco. Ricordiamo, a questo proposito, la controversa ipotesi di Georges Dumézil, che ha collegato il nome del sacerdote romano detto flamen al brahmán vedico32: il flamen, quindi, sarebbe il sacerdote “che accende il fuoco” sull’altare sacrificale33. Questa ipotesi è stata contestata da molti studiosi, ma Andrew Sihler ritiene plausibile l’affermazione che flamen possa essere riconducibile al termine sanscrito34. Insomma, considerando anche che il mito vedico del furto del fuoco da parte di Mātariśvan è simile a quello greco35, sospettiamo che il nome Prometeo possa significare letteralmente “dio del fuoco”, come si può dedurre confrontando il prefisso prome– con la radice di flamen-brahmán, che a sua volta corrisponde al latino flamma, “fiamma”36.
Per inciso, a nostro avviso anche la controversa etimologia del nome delle Pleiadi potrebbe essere ricondotta alla stessa radice, considerando che esse non di rado vengono strettamente legate al fuoco. In particolare, è proprio nella mitologia indiana che le Pleiadi sono chiamate “le stelle del fuoco” e la loro divinità dominante è Agni, il dio vedico del fuoco37. Inoltre, secondo una leggenda del popolo Wurundjeri dell’Australia sud-orientale, esse sono il fuoco di sette sorelle, che furono le prime a sperimentare l’accensione del fuoco; ognuna di loro portava carboni ardenti all’estremità dei propri bastoni da scavo, che in seguito divennero le stelle luminose dell’ammasso delle Pleiadi38. Va altresì considerato che il passo del Libro di Enoch che menziona “sette stelle del cielo legate insieme (…) come di fuoco ardente”39 è riferibile alle Pleiadi.
Notiamo anche che la mitologia greca ricorda apertamente il rapporto tra Prometeo e Tizio: “Si vede a Panopeo, sulla strada, un piccolo edificio di mattoni, e in questo edificio una statua di marmo pentelico; alcuni dicono che sia Esculapio, altri Prometeo (…) Queste pietre sono un residuo del limo con cui Prometeo creò la razza umana. La tomba di Tizio è anche raffigurata sull’orlo del burrone”40. Per inciso, l’unico passo in cui l’Odissea menziona la città di Panopeo è proprio quello, citato in precedenza, che si riferisce a Tizio, il quale “aveva osato violentare Latona, moglie di Zeus, che stava andando a Pito passando per Panopeo”41.
Del resto, anche il fatto che a Prometeo venga attribuita la creazione del genere umano dal limo ha una precisa corrispondenza nella figura di Ti’iti’i (o Tiki): infatti “si dice che Tiki abbia creato l’uomo mescolando il suo sangue con l’argilla (…) A Tahiti, si dice che Tii (Tiki) sia stato il primo uomo, e sia stato fatto di terra rossa. La prima donna fu Ivi (a Samoa e Rotuma la prima donna si chiamava Iva), e fu fatta da una delle ossa (“ivi”) di Tii, il primo uomo”42. Qui si può anche notare che il nome di Ivi-Iva è quasi identico a quello della biblica Eva, creata da una costola di Adamo. Un’altra convergenza – anche considerando che i ricordi del Diluvio e della Torre di Babele si ritrovano nei miti polinesiani43 – è quella fra il termine hawaiano kahuna, originariamente riferito ad un maestro spirituale, e l’ebraico kohen, per non parlare della corrispondenza tra Rongo, il dio dell’agricoltura dei Maori della Nuova Zelanda, ed un’antica divinità agricola della Carelia, nell’estremo nord dell’Europa, il cui nome è “Rongotheus, che forniva la segale”44.
E che dire della straordinaria somiglianza, notata e riportata da Guillaume de Hevesy, tra i caratteri rongorongo delle iscrizioni scoperte nel XIX secolo sull’Isola di Pasqua e quelli, risalenti al III millennio a.C., della civiltà della valle dell’Indo45? Eppure distano 20.000 km l’una dall’altra: insomma, stanno esattamente agli antipodi! D’altra parte, il fatto che le Pleiadi siano sempre considerate sette in tutte le mitologie del mondo – a dispetto del fatto che il numero delle Pleiadi visibili nel cielo notturno vari tra sei e dodici, a seconda dell’acutezza visiva dell’osservatore e della visibilità atmosferica – sembra anch’esso suggerire una sorta di globalizzazione preistorica.
In ogni caso, qui vorremmo di nuovo sottolineare lo stupefacente triangolo Prometeo-Tizio-Ti’iti’i, in cui Prometeo corrisponde al Tizio omerico, Tizio ha un nome accostabile a quello di Ti’iti’i, e Ti’iti’i a sua volta corrisponde a Prometeo. Insomma abbiamo a che fare con la stessa entità mitica, ispirata da quel particolare tipo di vulcani “a scudo”, che per vie diverse ci è giunta da una remota preistoria e va pertanto aggiunta a tutte le corrispondenze precedentemente esaminate fra il mondo greco e quello polinesiano.
A questo punto osserviamo che sul versante meridionale dell’isola di Maui, antistante all’isola Hawaii, si erge un grande vulcano molto attivo in passato, l’Haleakala, alto più di 3000 metri. Tenendo anche conto del fatto che Maui è il nome del semidio di cui Ti’iti’i è l’alter ego samoano, si può ipotizzare che sia questo il vulcano, chiamato Tizio da Omero, che Radamanto andò a vedere con i Feaci (Fig. 2).
Ciò potrebbe spiegare la brevità del viaggio, durato un solo giorno, della nave feacia che accompagnò Radamanto a vedere Tizio: insomma ci sembra infatti ragionevole supporre che, in seguito alle vicissitudini di una lunghissima tradizione orale (a cui poi si aggiunsero i problemi della messa per iscritto), la breve durata del viaggio di andata e ritorno dall’Isola Hawaii all’adiacente isola di Maui col passare dei secoli sia stata erroneamente interpretata come il tempo impiegato dalla nave feacia per tornare in patria da quell’isola “ai confini del mondo”! E questo forse anche grazie alla fama di straordinari navigatori che l’Odissea attribuiva ai Feaci (i quali, all’epoca in cui le saghe orali da cui trassero origine i poemi omerici furono messe per iscritto, erano probabilmente diventati altrettanto mitici quanto lo sono per noi oggi).
Ma ora dobbiamo cercare di chiarire a cosa si riferisce Alcinoo quando menziona l’Eubea, “di cui quelli del nostro popolo che la videro, quando accompagnarono il biondo Radamanto a vedere Tizio, figlio di Gea, dicono che è la più lontana”. Dobbiamo subito escludere l’Eubea che ben conosciamo: non ha infatti senso definirla “la più lontana”, mentre si trova in una posizione centrale nel suo bacino. Possiamo invece chiederci se quella strana Eubea dove visse Radamanto, che secondo la nostra localizzazione dei Campi Elisi corrisponderebbe all’isola Hawaii, possa aver preso il suo nome da qualche isola situata all’estremo nord, dove presumibilmente vissero gli antenati degli Achei prima che il crollo climatico che segnò la fine dell’Optimum Climatico preistorico li costringesse a spostarsi a sud (su quest’ultimo punto torneremo tra poco).
Ora, nel mare Artico, non lontano da Capo Nord, si trova l’isola norvegese di Havøya (chiamata Ávvá dai Sami). È ragionevole supporre che questo nome sia all’origine non solo del nome di Eubea (il cui nome moderno, Evia, sembra direttamente evocare Havøya-Ávvá), ma anche del nome dell’isola Hawaii dove, durante l’età megalitica, regnavano Crono e Radamanto. Per inciso, sempre sul nome di Eubea, a prima vista si direbbe che significhi “buona per i buoi” (eu-bous in greco), mentre potrebbe invece trattarsi di un antico equivoco circa il suo nome originario (dovuto al fatto che gli Achei omerici vissero in un periodo molto successivo all’età megalitica). Ciò è confermato dal fatto che il nome dei suoi abitanti, gli Abanti omerici, che presero parte alla guerra di Troia, non corrisponde a quello dell’Eubea ma richiama invece quello della sua radice originaria, che ritroviamo anche nel nome dell’attuale Evia e in quello di Havøya-Ávvá, che a sua volta si ritrova nel nome dell’isola Hawaii e anche in quello degli Aviones, gli antichi abitanti di Öland, l’isola svedese che è la controparte baltica dell’Eubea greca46.
Tutto ciò corrobora l’identificazione dell’Eubea, citata da Alcinoo in relazione a Radamanto, con l’isola Hawaii, il cui nome fu probabilmente modellato su quello dell’isola artica di Havøya-Ávvá, che, grazie all’Optimum Climatico Olocenico, godeva di un clima molto più mite durante il periodo megalitico di quanto non lo sia oggi.
Riguardo a quest’ultimo punto, notiamo che nell’Odissea vi sono diverse indicazioni che gli antenati degli Achei vissero nella Scandinavia settentrionale durante l’Optimum Climatico, la cui drammatica conclusione, che segnò anche la fine dell’eta megalitica, ci è stato tramandato dall’Avesta, il testo sacro iranico dello Zoroastrismo, in cui si racconta la distruzione del paradiso primordiale indoeuropeo, chiamato Airyana Vaêjo, ad opera della neve e del gelo: il dio Ahura Mazda avvertì Yima, il primo re degli uomini, che una serie di inverni molto rigidi stava per distruggere il suo paese e che successivamente vi sarebbero stati dieci mesi di inverno e solo due di estate47, che è l’attuale clima delle regioni artiche.
A sua volta, la mitologia greca rievoca questo evento sotto la metafora di Crono, signore dell’Età dell’Oro, spodestato da Zeus, dio della tempesta, e dai suoi due fratelli, Poseidone, dio del mare tempestoso, e Ade48. Infatti, la “casa in rovina”49 di quest’ultimo (il signore dei morti, cioè degli antenati degli Achei omerici) appare nelle avventure di Odisseo in un desolato contesto artico, situato quasi all’estremità settentrionale della penisola scandinava50, diventata inabitabile dopo il tracollo climatico che segnò la fine dell’Optimum. Si può supporre che questa catastrofe abbia costretto gli antenati degli Achei omerici a trasferirsi dalla Scandinavia settentrionale all’area baltica, dove ebbe luogo la guerra di Troia, da successivamente, dopo la guerra di Troia, alcuni dei loro discendenti si trasferirono nel Mediterraneo, dove diedero origine alla civiltà micenea. Nel frattempo, altri popoli, probabilmente provenienti anch’essi dall’estremo nord, fuggirono nelle steppe russe e negli Urali meridionali, dove fiorì la cultura Sintashta, generalmente considerata l’origine delle lingue indo-iraniche51, da dove poi i loro discendenti raggiunsero l’India e l’Iran. Questo spiega perché “Ci sono molte somiglianze tra i rituali Sintashta/Androvono e quelli descritti nel Rig Veda e tali somiglianze si estendono fino all’età del bronzo nordica”52 e, d’altra parte, l’età del bronzo nordica mantenne stretti legami commerciali con la Grecia micenea, con la quale condivide diverse “sorprendenti somiglianze”53.
Ma questo è un quadro incompleto: mancano ancora molti pezzi del puzzle, che sarà compito di futuri studi trovare e mettere al giusto posto. Nel frattempo, riteniamo che quanto detto finora abbia reso plausibile l’ipotesi che certi racconti e personaggi mitici legati al fuoco abbiano avuto origine da fenomeni naturali come le eruzioni vulcaniche.
Due antiche città molto lontane, però vicine
Con i vulcani non abbiamo ancora finito, perché quanto appena detto ci ha suggerito di indagare anche su un’altra singolare corrispondenza, sempre suggerita, sia pure indirettamente, da Omero. Ci riferiamo al nome di Panopeo, la città menzionata in relazione a Tizio nell’Odissea, che la collega, sulla base di quanto emerso finora, ad un contesto vulcanico. Il suo nome appare molto simile a quello di Ponape o Pohnpei, un’isola vulcanica polinesiana che fa parte delle Isole Caroline, adiacente alla cui sponda orientale si trova l’imponente sito archeologico di Nan Madol54. Qui vi sono i resti di una straordinaria città megalitica, costruita in una laguna – per questo è chiamata “la Venezia del Pacifico” (o anche “l’ottava meraviglia del mondo”) – il cui nucleo, con le sue mura di pietra, è costituito da 92 piccole isole artificiali (piattaforme di pietra e corallo) collegate da una rete di canali, su un’area di 1,5 per 0,5 chilometri (Fig. 3). Tutti gli edifici sono costituiti da enormi blocchi di basalto assemblati con straordinaria precisione (l’edificio più grande ancora in piedi ha muri perimetrali alti 8 metri).
Ora, la somiglianza del nome di Ponape con quello di Panopeo ci ha fatto riflettere sul suo altro nome, Pohnpei – che è simile sia a Ponape che a Panopeo, ed in lingua locale significa “su (pohn) un altare di pietra (pei)”55 – il quale appare pressoché identico a quello di Pompei, la città che fu sepolta sotto una coltre di cenere e pomice nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Insomma ci si può chiedere se il nome di Pompei non possa essere ricondotto alla civiltà megalitica – di cui si trovano tracce in Campania e soprattutto nelle regioni limitrofe – e se non lo si possa in qualche modo correlare alla polinesiana Pohnpei-Ponape, sia pure lontanissima, nel quadro ipotizzato di una civiltà globale preistorica che, come abbiamo appena visto, sembrerebbe aver attribuito notevole importanza ai fenomeni vulcanici.
Innanzitutto, si sa ben poco sull’origine di Pompei e sul significato del suo nome. Si suppone che entrambi siano legati agli Osci, antico popolo italico stanziato tra il Lazio meridionale e la contigua Campania. In realtà Pompei, anche se è nota per i suoi resti romani straordinariamente ben conservati proprio a causa di quell’eruzione che ne segnò la fine, era una città di origini molto più antiche, entrata in contatto con la civiltà greca in seguito all’arrivo dei Greci in Campania (intorno al 740 a.C.)56. Si può supporre, quindi, che l’origine del nome della città sia attribuibile agli antenati degli Osci (e forse anche ai loro vicini, i Sanniti, che parlavano la stessa lingua). Questo popolo abitava territori in cui non mancano testimonianze megalitiche, che a loro volta potrebbero essere state influenzate da quella ipotizzata civiltà preistorica per la quale, come abbiamo visto, vi sono non banali indizi che durante l’Optimum Climatico si estendesse fino all’Oceano Pacifico e alle isole della Polinesia.
Ora, nel Lazio meridionale sorgono cinque “città saturnie”57 circondate da imponenti mura megalitiche, che secondo la tradizione sarebbero state fondate da Saturno – ritenuto dai Romani l’equivalente di Crono – il quale avrebbe qui dato inizio alla mitica età dell’oro dopo essere arrivato su una nave ben prima della fondazione di Roma (dove aveva un tempio situato alla base del Campidoglio58, anticamente noto come Saturnius Mons, “Monte di Saturno”). A questo punto, non sembra del tutto irragionevole ipotizzare una relazione non casuale tra i nomi quasi identici di Pompei e Pohnpei.
A sostegno di questa ipotesi, ci sembra significativo che un antico villaggio sull’isola vulcanica di Pohnpei si chiami Palikir. Questo nome è quasi identico a quello di due gemelli divini, i Palici, ai quali i Siculi (Sikeloi), antichi abitanti della Sicilia, dedicarono un santuario ad Adrano, una cittadina che sorge vicino ai piedi dell’Etna, il più grande vulcano europeo, dove veniva conservato un fuoco eterno59 (Adrano è anche il nome di un’antica divinità vulcanica che si riteneva fosse il padre dei Palici e che i Greci identificarono con Efesto).
Da un lato, il nome dei Palici richiama le Palilie, la festa del fuoco, dedicata alla dea Pale, in occasione della quale i gemelli Romolo e Remo fondarono Roma (in occasione delle Palilie “i contadini saltavano attraverso i fuochi”)60; d’altro canto, il nome di Pale è simile sia a Beleno, una delle più antiche divinità celtiche, associata alla pastorizia (il 1° maggio si teneva una grande festa del fuoco, chiamata Beltane, in cui il bestiame veniva purificato dal fuoco)61, sia a Pele, la dea hawaiana del fuoco e dei vulcani, che si dice risiedesse nel vulcano Kilauea sull’isola Hawaii. Non solo: Pele era accompagnata da un cane bianco, e qui osserviamo che nel suddetto santuario del fuoco di Adrano, dedicato ai Palici, venivano tenuti mille cani sacri62. Inoltre, l’abbinamento di Pele, dei Palici e dei cani richiama Bila (o Belah), una dea solare del popolo Adnyamathanha (Australia Meridionale), che si dice fosse una cannibale che sguinzagliava i suoi cani per catturare le sue vittime, che poi arrostiva sul fuoco63. Tra l’altro, questo intrico di parole simili legate a divinità del fuoco – Pele, Pale, Palici, Bila (per non parlare di Baal, il dio fenicio-cananeo che per alcuni sarebbe anche un dio del sole, e dell’accadico Bēlu) – che sembrano rincorrersi per tutto il mondo, è coerente con l’ipotesi esposta in precedenza secondo cui il nome delle Pleiadi potrebbe aver avuto la stessa origine ignea, considerando anche che, come abbiamo visto, nella mitologia indiana (e non solo) esse sono direttamente collegate al fuoco.
Quanto al significato del cane bianco di Pele, il riferimento potrebbe essere alla stella Sirio, che Omero chiama “Cane di Orione” associando il suo aspetto a “un presagio maligno”64, mentre i Romani celebravano annualmente il tramonto eliaco di Sirio sacrificando un cane65. Ma ciò che fa più riflettere è che molte nazioni tra i popoli indigeni del Nord America associavano Sirio a un cane; ad esempio, i Seri e i Tohono O’odham del sud-ovest vedevano questa stella come un cane che segue le pecore di montagna, i Piedi Neri chiamavano Sirio “Faccia di cane”, i Cherokee la associavano ad Antares come stella-cane custode di entrambe le estremità del “Sentiero delle anime”, mentre gli Inuit dell’Alaska dello Stretto di Bering chiamavano Sirio “Cane della luna”66. Ciò va di pari passo con il fatto che i Lakota chiamano l’Orsa Maggiore (in latino Ursa Maior, cioè “Grande Orsa”) Wičhákhiyuhapi, “la Grande Orsa”67. Per inciso, è altresì sorprendente che sempre i Lakota chiamino la Madre Terra Maka, come i Micenei68 (del resto, Mokoš era l’antica Madre Terra dei popoli slavi prima della cristianizzazione); inoltre, sono ancora i Lakota a chiamare l’energia divina che permea l’Universo Wakan, nome pressoché identico a Waka, che esprime la stessa idea tra gli Oromo dell’Etiopia (e che a nostro avviso va confrontato con il concetto molto simile di Bráhman69, che si ritrova nel mondo vedico).
Ma le correlazioni di Pele, la dea hawaiana dei vulcani, con altre culture molto lontane dalla Polinesia, non finiscono qui: pensiamo al nome del vulcano Pelée in Martinica, isola delle Antille. E che dire del campo di lava Pæla70, sotto il famigerato vulcano Hekla in Islanda, uno dei più famosi vulcani islandesi (Fig. 4) che nel Medioevo era addirittura considerato “la porta dell’Inferno”71?
Ciò che fa sospettare che non si tratti di una mera coincidenza è la somiglianza del nome di Hekla, che era molto attivo anche in epoca preistorica72, con quello di Haleakala, il vulcano hawaiano di cui abbiamo parlato prima in relazione a Tizio. Inoltre potrebbe valere la pena di approfondire il fatto che sia Hekla che Haleakala richiamano da un lato il nome del vulcano Callaqui in Cile, dall’altro il termine latino aquila, sulla cui relazione con Thiazi, Prometeo e l’attività vulcanica ci siamo soffermati in precedenza (ma pensiamo anche a quanto detto sul greco aiglē).
Notiamo anche che “Pele condivide tratti simili ad altre divinità maligne che abitano i vulcani, come nel caso del diavolo Guayota della mitologia dei Guanci delle Canarie, che viveva sul vulcano Teide e che era creduto essere colui che provocava le eruzioni del vulcano”73. Ora, dopo aver notato che i capelli biondi dei Guanci, gli antichi abitanti delle Canarie prima dell’arrivo degli spagnoli74, hanno sempre dato adito a ipotesi e discussioni tra gli studiosi, qui osserviamo che il nome del Teide –,il grande vulcano dell’isola di Tenerife nonché “il punto più alto sul livello del mare delle isole dell’Atlantico”75 (e che, pertanto, doveva essere ben noto all’ipotizzata civiltà preistorica capace di navigare con le sue navi tra l’Atlantico e il Pacifico) – appare glottologicamente accostabile a quello di Ti’iti’i, il dio polinesiano del fuoco paragonabile a Tizio e Prometeo.
Infine, le “piramidi di Güímar” alle pendici del Teide, sulla costa orientale di Tenerife, attribuite da Thor Heyerdahl agli antichi Guanci, chiudono il cerchio (o meglio, l’intricata rete di corrispondenze) con quanto detto sopra, poiché sono molto simili alle cosiddette “piramidi dell’Etna”, alle pendici del vulcano siciliano – nella zona in cui abbiamo appena trovato i Palici e il santuario del fuoco di Adrano – finora trascurate dagli archeologi, ma studiate da Antoine Gigal76. Si tratta di un’ulteriore corrispondenza che si inserisce perfettamente nel complesso quadro qui delineato.
In sintesi, gli indizi a favore della non casualità dell’omonimia tra Pohnpei e Pompei sembrano gettare finalmente luce sull’origine del nome di quest’ultima, confermandone nel contempo la grande antichità, e nel contempo ampliano e arricchiscono ulteriormente il quadro generale fin qui delineato, rafforzando l’idea dell’esistenza di una civiltà preistorica globalizzata che durante l’Optimum Climatico Olocenico coinvolgeva il mondo intero, fino alle latitudini più elevate e ai “confini del mondo”.
Conclusioni
Le due citazioni sul gigante Tizio contenute nell’Odissea, rilette alla luce sia di quanto emerso in un precedente articolo sulla reale ubicazione dei Campi Elisi, sia delle comparazioni con Prometeo e con Ti’iti’i, il suo omologo polinesiano, sono state lo spunto per formulare l’ipotesi che questi due personaggi della mitologia greca, accomunati dallo stesso tipo di punizione e dall’essere entrambi figli della Terra, siano nati come metafore di vulcani a scudo, le cui eruzioni hanno sempre avuto un impatto molto forte sulla vita e sulle credenze delle popolazioni coinvolte e dei loro discendenti. Inoltre, lo sviluppo di questa indagine ci ha portato a proporre ulteriori ipotesi, riguardanti un’inedita etimologia del nome di Prometeo e la plausibilità dell’idea che la corrispondenza tra il nome dell’isola vulcanica polinesiana di Pohnpei, dove si trovano gli imponenti resti di una antica città, e quello di Pompei, sepolta dall’eruzione del Vesuvio in epoca romana, possa non essere dovuta semplicemente al caso.
Inoltre la grande distanza che separa le culture coinvolte in questo studio sembra attestare l’antichità di queste concezioni, avvalorando l’idea che vi sia stata una civiltà preistorica globale diffusa su tutto il pianeta: Platone ce ne avrebbe lasciato l’ultimo ricordo tramandandoci il mito di Atlantide, di cui quanto qui emerso rappresenta un’ulteriore conferma. Ciò implica che nella preistoria vi sia stata una civiltà con adeguate conoscenze dell’arte della navigazione, come confermato da recenti studi sul megalitismo.
Tuttavia questi temi necessitano di ulteriori studi e approfondimenti, che in futuro potrebbero gettare nuova luce sulla preistoria dell’umanità.
Il testo originale in inglese è leggibile qui.
Felice Vinci*, com.unica 31 ottobre 2024
*Ricercatore senior dell’ATINER (Athens Institute for Education and Research)
Riferimenti
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- Colpisceil resoconto di uno dei primi incontri di navigatori Europei con Polinesiani, avvenuto nel 1595 in una delle isole Marchesi, allorché apparvero “circa quattrocento indiani dalla pelle quasi bianca e di grande statura (…) I capelli, lunghi come quelli delle donne, sono molto morbidi (…) Molti di loro sono biondi” (Surdich F (2015) Verso i Mari del Sud, Roma, p. 50). I tratti europei di alcuni indigeni polinesiani stupirono anche il navigatore francese L.A. de Bougainville, sbarcato a Tahiti nel 1768: “Uomini alti sei piedi e anche più. Non ho mai incontrato uomini così ben fatti e proporzionati (…) Nulla distingue i loro lineamenti da quelli degli europei” (Idem, p. 171).
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- Vinci F (2024) A Hypothesis on the Pillars of Hercules and their True Location, in J Anthro & Archeo Sci 9(3)-2024. JAAS.MS.ID.314 (www.agenziacomunica.net/2024/05/20/unipotesi-sulle-colonne-dercole-e-la-loro-reale-localizzazione/).
- Plut. De Fac. 941c.
- Plat. Tim. 24e. I dettagli forniti da Platone sul “porto con una stretta entrata” (Tim. 25a) con accanto le Colonne d’Ercole, da cui, a suo dire, in un’epoca remota salpavano le navi verso il continente al di là dell’Atlantico, ci hanno permesso di identificarlo come il Golfo di Morbihan. Infatti, accanto alla sua “stretta entrata”, a Locmariaquer, si trovano i resti di uno stupefacente allineamento di diciannove enormi menhir, identificabili con le Colonne d’Ercole.
- Om. Od. 7.321-326.
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- Pind. II Ol. 70-75.
- Om. Od. 11.576-581. Ovidio attinge a questo passo nelle sue Metamorfosi: “Gli avvoltoi smisero di strappare il fegato (di Tizio)” (Nec carpsere iecur volucres; Met. 10.43).
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- Cfr. Vinci F (2020) I Misteri della Civiltà Megalitica, Gorizia, cap. 8.
- Ad esempio, nel Dicksonfjord (lat. 78°N), un ramo del fiordo di Isfjorden a Spitsbergen, si è scoperto durante lo HCO vi era una temperatura media di +6°C rispetto a quella attuale. Cfr. Beierlein L, Salvigsen O, Schöne B, Mackensen A, Brey T (2015) The seasonal water temperature cycle in the Arctic Dicksonfjord (Svalbard) during the Holocene Climate Optimum derived from subfossil Arctica islandica shells, in The Holocene 25 (8): 1197-1207.
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- Ciò può essere dedotto confrontando il prefisso prome- con la radice di flamen-brahmán, che a sua volta corrisponde al latino flamma, “fiamma”. 37. Harness D (1999) The Nakshatras: the lunar mansions of Vedic astrology, Twin Lakes, p. 29.
- https://en.wikipedia.org/wiki/Pleiades_in_folklore_and_literature
- 1 Enoch 21:3. Riguardo all’identificazione di queste sette stelle legate e ardenti con le Pleiadi, di cui Giobbe dice: “Puoi tu legare le catene delle Pleiadi?” (Gb 38,31), cfr. Vinci F (2020) I Misteri della Civiltà Megalitica, Gorizia, p. 148.
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