Le conseguenze globali del suo ritorno alla Casa Bianca. Avremo un’Europa senza l’ombrello di Washington?

All’alba del 6 novembre, dopo una lunga e drammatica notte elettorale, gli Stati Uniti hanno un nuovo leader. O meglio, un leader già conosciuto. Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali e farà ritorno alla Casa Bianca, affermandosi con un risultato netto nei principali stati in bilico: North Carolina, Georgia, Pennsylvania e, infine, Michigan e Wisconsin. Alle 1:30 del mattino, quando Fox News annuncia ufficialmente la vittoria di Trump, un urlo di giubilo esplode al Convention Center di Palm Beach, in Florida. Sul palco, Trump è circondato dai suoi familiari, mentre la folla dei suoi sostenitori acclamanti riempie la sala con il loro canto ritmato “Iu-Es-Ei!”. È una scena che riporta alla mente la sua prima elezione, ma con toni ancora più accentuati e una visione ben definita di cosa sarà il secondo mandato di Donald Trump.

Dopo essersi fatto attendere per qualche minuto, Trump prende la parola davanti alla sua entusiasta platea. L’atmosfera è carica di adrenalina, come sottolineato dallo stesso ex presidente, che definisce il momento «il più grande della storia politica americana». Con accanto la moglie Melania e il figlio Barron, Trump non si sottrae a esprimere con forza le sue intenzioni: «Sistemeremo i confini e riporteremo l’America al suo splendore». Ringrazia il suo vice, J.D. Vance, e il più importante sostenitore della sua campagna, Elon Musk, che però non è presente in sala. Promette inoltre di “guarire” il Paese dalle profonde divisioni e assicura di voler «superare le fratture» accumulate durante il periodo democratico. Parole di speranza, anche se si respira l’aria di una divisione sempre più marcata nel cuore della nazione.

Dietro la vittoria di Trump si celano fattori complessi, tra cui l’insoddisfazione diffusa verso la presidenza di Joe Biden e la percezione che Kamala Harris non fosse una candidata forte. Federico Rampini, sul Corriere della Sera, vede in questa tornata elettorale l’esito di un fallimento democratico sia a livello di leadership sia nella comunicazione della propria agenda. Pur avendo dichiarato il suo voto per Harris, l’analista del Corriere non nasconde le sue critiche verso il partito democratico, osservando come molti degli elettori avrebbero percepito Biden come una figura indebolita, incapace di reagire all’inflazione post-Covid e alle sfide economiche. Rampini ha seguito Trump in veste di corrispondente durante il suo primo mandato e ha vissuto da vicino gli effetti polarizzanti della sua politica. Tuttavia, sottolinea come, nonostante i continui avvertimenti da parte dell’establishment democratico sui rischi di una seconda presidenza Trump, i cittadini americani abbiano scelto di premiare il magnate. Molti elettori – sottolinea – non hanno accettato l’idea di un’estensione della “presidenza Obama” sotto una Harris percepita come ideologicamente incoerente. Gli spostamenti e i cambi di posizione della vicepresidente – dal sostegno all’agenda green radicale all’attuale enfasi su un approccio più pragmatico – sono stati interpretati come tattiche elettorali prive di una visione chiara.

Il ruolo cruciale di Elon Musk nella campagna elettorale

L’influenza di Elon Musk su questa campagna non è stata trascurabile. Dopo aver mantenuto un profilo relativamente neutrale negli anni passati, il miliardario di origine sudafricana è divenuto uno dei principali alleati di Trump, mobilitando le proprie risorse e sfruttando la piattaforma X (ex Twitter) per sostenere attivamente la campagna repubblicana. Musk non si è limitato a finanziare la campagna di Trump, ma ha trasferito temporaneamente la sua residenza in Pennsylvania, uno degli stati chiave, portando con sé il suo team per lavorare su una strategia vincente. Ha inoltre permesso a Trump di parlare apertamente su X senza contraddittori, influenzando il pubblico giovanile con l’algoritmo della piattaforma, come riportato dal Wall Street Journal. È evidente che Musk non ha solo appoggiato Trump per convenienza, ma ne ha condiviso alcuni principi fondamentali, come la critica verso la “cultura woke” e l’urgenza di riforme strutturali e radicali.

Le implicazioni globali della vittoria: Europa e Ucraina sotto pressione

La vittoria di Trump – è ovvio – non riguarda solo gli Stati Uniti. Le conseguenze per l’Europa sono immediatamente percepibili. Rampini è particolarmente critico sulle implicazioni internazionali, osservando che “l’America vota, la Russia vince”. Questa non è una semplice formula retorica, ma un’analisi su come l’abbandono degli Stati Uniti alla questione ucraina rappresenterebbe un cambio di rotta drammatico. L’Ucraina, finora sostenuta dalla diplomazia e dagli aiuti americani, si troverebbe ora senza l’appoggio di Washington, lasciando il Paese esposto alla crescente influenza russa e alle mire espansionistiche di Putin. Rampini mette in luce il fatto che l’Europa, se costretta a fronteggiare questa crisi senza il supporto degli Stati Uniti, dovrà prepararsi a un futuro in cui sarà costretta a “proteggersi da sola”, mettendo a rischio risorse per il welfare e compromettendo settori chiave come la sanità e l’istruzione. Maurizio Molinari concorda nel suo editoriale per Repubblica: Trump rappresenta un cambiamento radicale nel panorama internazionale, con un’America meno propensa a investire nelle tradizionali alleanze e più interessata a una politica di protezionismo economico. La Russia di Putin, così come altri autocrati, trova quindi nel ritorno di Trump una legittimazione implicita della propria visione di governance. Anche Christian Rocca su Linkiesta mette in guardia contro il rischio di un’Europa che si ritrova, dopo decenni, senza il sostegno dell’ombrello di Washington. Quanto allo scacchiere mediorientale bisogna ricordare che nel suo primo mandato, Trump aveva instaurato rapporti stretti con il governo israeliano, trasferendo l’ambasciata americana a Gerusalemme e riconoscendo la sovranità di Israele sulle alture del Golan, mosse che hanno consolidato un’alleanza strategica. Un secondo mandato di Trump potrebbe segnare un ulteriore rafforzamento di questi legami, sostenendo le posizioni più dure dell’attuale governo israeliano, specialmente riguardo alla questione palestinese. Allo stesso tempo l’assenza di pressioni diplomatiche per i negoziati israelo-palestinesi rischia di rendere ancora più difficile una soluzione pacifica e duratura, alimentando un clima di instabilità permanente nell’area.

Jon Meacham: il rischio di una democrazia in pericolo

Jon Meacham, storico e biografo presidenziale, ha espresso sul New York Times una riflessione profonda e inquietante sulla seconda presidenza Trump, che considera un pericolo senza precedenti per la democrazia americana. Per Meacham, Trump rappresenta qualcosa di “aberrante” nella storia americana, una figura che non si può inquadrare nei normali parametri democratici. «Un altro mandato di Trump è un invito aperto al caos», osserva Meacham, avvertendo che l’intero sistema democratico americano rischia di diventare ostaggio della volontà di un uomo che ha già tentato di sovvertire l’ordine costituzionale. Il secondo mandato di Trump, secondo Meacham, potrebbe cancellare il bilanciamento di poteri e instaurare un’epoca di conflitti interni, in cui la democrazia americana potrebbe trovarsi costretta a scegliere tra la sua stessa sopravvivenza e la pace civile. Una posizione su questo simile a quella di Rampini, che ammonisce: “l’America deve riflettere su come sia possibile che un personaggio così divisivo sia ancora competitivo”.

Tuttavia, per molti cittadini, Trump incarna l’unica via per una vera “disruption” e una liberazione dall’élite politica, rendendo queste elezioni uno dei più forti punti di rottura della storia americana. In questo contesto, la vittoria di Trump non rappresenta solo il ritorno di un ex presidente alla Casa Bianca, ma l’inizio di una fase completamente nuova, un’America profondamente divisa e pronta a ripensare il proprio ruolo nel mondo.

S.C./com.unica, 6 novembre 2024

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