Tra scienza e marketing, un’inchiesta del New York Times solleva dubbi sui segreti della longevità

Il fascino delle Blue Zones risiede in una promessa apparentemente semplice e alla portata di tutti: vivere più a lungo e meglio, grazie a una serie di abitudini che, a detta di molti, conducono a una vita più sana e longeva. Queste aree speciali nel mondo, disseminate in poche località come Okinawa in Giappone, Ikaria in Grecia, Loma Linda in California, Nicoya in Costa Rica e la Sardegna, sarebbero i templi di una vita intensa e attiva fino a un’età avanzata, raggiunta non per magia, ma per una combinazione di fattori ambientali e sociali. Ma se tutto questo fosse solo un’illusione? Se lo chiede un articolo pubblicato sul New York Times lo scorso 24 ottobre.

L’idea stessa di Blue Zone nasce nel 2004, con uno studio pionieristico pubblicato sulla rivista accademica Experimental Gerontology dal professor Gianni Pes dell’Università Di Sassari insieme al demografo Michel Poulain (Università di Lovanio) e altri. In questo articolo, gli autori descrivono l’individuazione di un’area geografica nella Sardegna centrale, dove la longevità risulta particolarmente alta, specialmente tra gli uomini. Utilizzando un indicatore definito “Indice di Longevità Estrema” (ELI), il team ha identificato una regione montuosa dell’isola con una concentrazione di centenari significativamente superiore alla media. Questa Blue Zone sarda è caratterizzata da un rapporto maschi/femmine tra i centenari piuttosto unico, un dato che suggerisce che fattori ambientali o genetici possano agire in modo specifico sulla popolazione locale. È interessante notare come, nonostante la scarsità di immigrazione e l’alto tasso di consanguineità, questa popolazione sembri beneficiare di una sorta di “protezione genetica” contro le malattie tipiche dell’età avanzata.

Sin dai primi anni 2000, grazie ai lavori del reporter di National Geographic Dan Buettner, il mito delle Blue Zones si è diffuso rapidamente. Buettner ha studiato queste regioni, osservando uno stile di vita in cui l’alimentazione sana, la centralità della famiglia e della comunità, l’assenza di vizi come il fumo e, non ultimo, il senso di uno scopo nella vita, sembrano essere le chiavi della longevità. “Queste persone non fanno nulla di quello che facciamo di solito per rimanere in salute,” ha affermato Buettner in un’intervista, sottolineando come nei loro gesti non si trovino tracce dei “trucchi di longevità” tanto in voga nel mondo occidentale: diete drastiche, integratori, allenamenti estremi. Negli anni, Buettner ha fatto delle Blue Zones un marchio registrato, con tanto di “Power 9”, una lista di nove comportamenti chiave per raggiungere una lunga vita. La diffusione delle sue idee ha portato alla pubblicazione di numerosi libri, al lancio di una serie su Netflix, e persino alla vendita della società Blue Zones ad Adventist Health, una rete sanitaria fondata sui principi avventisti.

Eppure, non tutti gli studiosi sono convinti dell’autenticità delle Blue Zones. Dietro al sipario delle storie idilliache di longevità si nascondono sospetti, dubbi. Un giovane scienziato, Saul Justin Newman dell’University College di Londra, ha pubblicato nel 2019 uno studio che solleva il velo su quello che lui stesso definisce “l’epitome di cattiva gestione dei registri”. Il suo lavoro suggerisce che le elevate concentrazioni di centenari in alcune aree, comprese le Blue Zones, possano essere il frutto non di una vera longevità, ma di anomalie nei registri anagrafici. Newman sostiene che in queste aree, spesso povere e con bassi tassi di alfabetizzazione, non sia raro che un familiare dimentichi o eviti di registrare il decesso di un parente anziano, perpetuando così sulla carta l’illusione di un’età eccezionalmente avanzata. Le parole di Newman hanno sollevato inevitabilmente un dibattito acceso. Buettner difende con forza la validità delle sue ricerche: “Non mi sorprende che alcuni casi di centenari risultino fraudolenti,” ha detto, “ma non accade nelle regioni che abbiamo definito Blue Zones.” E sottolinea come le sue indagini siano frutto di viaggi sul campo e della verifica incrociata dei dati, con l’aiuto di demografi e altri specialisti.

La stessa nozione di “longevità” qui, si direbbe, si muove su un sottile crinale tra realtà e immaginazione. In questo senso, l’argomento delle Blue Zones sembra rievocare le atmosfere rarefatte di un mondo fiabesco, di terre ai margini del reale, dove il tempo scorre a un ritmo diverso. La sensazione è quella di entrare in una dimensione simile a quella delle “città invisibili” di Italo Calvino, dove il mondo dei dati scientifici sfuma in quello dei racconti tramandati di generazione in generazione. Non sorprende, quindi, che il mito delle Blue Zones sia così affascinante e popolare.

Ma dove si trova allora la verità? Forse la risposta, suggerirebbe qualcuno, è nel mezzo, in quello spazio d’incertezza tra l’osservazione e la prova, tra ciò che ci appare e ciò che realmente è. Forse la forza delle Blue Zones è proprio questa: la creazione di un immaginario collettivo che ci spinge a riflettere sui nostri stili di vita e sulla nostra salute, anche se forse i racconti di longevità che ascoltiamo sono idealizzati o, addirittura, imperfetti.

Anche se le critiche di Newman e di altri studiosi non sminuiscono completamente l’idea delle Blue Zones, evidenziano la necessità di guardare con occhio critico a qualsiasi teoria che afferma di possedere il segreto della longevità. E infatti, non mancano neppure le voci degli esperti che, pur non sposando il mito incondizionatamente, concordano sull’importanza di adottare uno stile di vita sano. Nadine Ouellette, professoressa di demografia all’Università di Montreal, commenta: “Non c’è dubbio che una dieta nutriente, l’attività fisica e il senso di comunità possano aiutare a vivere più a lungo e in salute.” Tuttavia, come molti altri accademici, solleva dubbi sulla precisione dei dati raccolti da Buettner, suggerendo che ci sia bisogno di verifiche più rigorose.

Il dibattito, dunque, si gioca tra l’attrazione per il mito e la necessità di un’analisi razionale e scientifica. Per alcuni studiosi, come il dottor Nir Barzilai dell’Albert Einstein College of Medicine, le Blue Zones sono “un’osservazione che si allinea con ciò che sappiamo sull’invecchiamento,” ma non si può dire che siano del tutto provate scientificamente. Barzilai suggerisce che mentre le Blue Zones rappresentano una visione interessante e in parte veritiera della longevità, non costituiscono una spiegazione definitiva.

E così, mentre il fascino delle Blue Zones persiste, alimentato da storie di nonni arzilli e paesaggi bucolici, la loro esistenza potrebbe rimanere per sempre nel limbo tra il reale e l’ideale, un sogno tangibile di una vita lunga e felice, ma forse, come tutti i sogni, impossibile da raggiungere del tutto.

Sebastiano Catte, com.unica 12 novembre 2024

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