L’ultima mossa di Boris Spassky, addio al Grande Maestro gentiluomo
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Fu campione del mondo di scacchi dal 1969 al 1972 ma tutti lo ricordano per una sconfitta che ha cambiato la storia, nella sfida contro Bobby Fischer in piena guerra fredda
Boris Vasilievich Spassky se n’è andato ieri, all’età di 88 anni, portandosi via l’ultima mossa di una vita giocata su una scacchiera più grande del mondo. Nato a Leningrado il 30 gennaio 1937, in una città che lui preferiva chiamare Pietrogrado, crebbe tra le macerie della Seconda Guerra Mondiale e trovò negli scacchi il suo linguaggio naturale. “Attraverso gli scacchi potevo esprimermi”, disse una volta. Ed è così che ha parlato per tutta la vita, con re e regine, alfieri e cavalli, parole silenziose in bianco e nero.
Iniziò a giocare da bambino, durante un viaggio in treno per sfuggire all’assedio di Leningrado. A dieci anni vinse nel corso di una simultanea contro il campione sovietico Mikhail Botvinnik, dimostrando di essere un predestinato. “A dieci anni sono diventato un professionista”, disse ricordando il suo primo allenatore, Vladimir Zak, che lo nutriva quando la fame mordeva più degli avversari. Raggiunse l’apice nel 1969, diventando campione del mondo battendo Tigran Petrosian. Il suo regno durò solo tre anni, fino a quell’incontro del secolo che cambiò la storia degli scacchi. Da allora, il suo nome è diventato sinonimo di eleganza nella sconfitta. Ha continuato a giocare, ma senza l’ossessione di tornare sul trono. Amava troppo gli scacchi per ridurli a una questione di vittoria o sconfitta.
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Boris Spassky (immagine libera da diritti)
Nonostante sia stato campione del mondo, sarà ricordato soprattutto per quella sconfitta. Non una sconfitta qualunque, però. La sua sfida contro Bobby Fischer nel 1972 a Reykjavík, in Islanda, non fu solo una partita di scacchi. Fu un dramma psicologico, un evento mediatico globale, un confronto ideologico tra Oriente e Occidente in piena Guerra Fredda. Un uomo calmo, enigmatico, elegante, contro un genio ribelle, eccentrico e imprevedibile. Bianchi contro neri, non solo sulla scacchiera. Si dice che l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger (scacchista dilettante) abbia telefonato personalmente a Fischer per convincerlo a partecipare quando, poco prima della sfida, l’americano aveva minacciato di ritirarsi: “Il peggior giocatore di scacchi del mondo vuole parlare con il migliore”. Fu più di un invito, fu una missione politica. La Guerra Fredda si combatteva anche su 64 caselle. E così fu. Fischer arrivò in ritardo, perse a tavolino la seconda partita, fece cambiare le sedie, le luci, bandì le telecamere. E poi vinse. Vinse come mai nessuno aveva vinto prima, mettendo fine a 24 anni di dominio sovietico sugli scacchi. Anche in Italia la sfida ebbe un’enorme risonanza, al punto che la Rai trasmise l’incontro come fosse una finale dei Mondiali di calcio, affidando la telecronaca a Nando Martellini e Bruno Pizzul. E – come ricorda il filosofo Massimo Adinolfi nel libro Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano (Mondadori), proprio Pizzul, con la sua voce inconfondibile, commentò così la prima partita tra il russo e l’americano:
“Amici degli scacchi alla visione e all’ascolto, buonasera da Bruno Pizzul. È un Bobby Fischer nervoso, molto nervoso, quello sceso in campo per questa prima partita della sfida mondiale. E non sembra volersi accontentare della patta cui vorrebbe costringerlo il rivale, con il suo gioco decisamente prudente. Fischer non ci sta e prova a stanare Spassky. Sacrifica l’Alfiere, e resta con cinque pedoni, ma alla quarantesima mossa fa un errore decisivo, imperdonabile. E perde. 1 a 0 per Spassky.”
Ma quella fu solo l’illusione di una vittoria. Fischer dominò il resto del match, costringendo Spassky alla resa finale. Il mondo applaudì l’americano, ma fu Spassky a guadagnarsi il rispetto. Rimase calmo, dignitoso, quasi affettuoso nei confronti del rivale. E dopo la sconfitta, quando Fischer lo invitò a una cena privata, il russo accettò, dimostrando che l’eleganza non conosce bandiere. Era fatto così, un uomo che viveva gli scacchi con leggerezza, senza fanatismi, capace di trovare bellezza anche nelle sconfitte.
Negli ultimi anni, la sua figura è stata avvolta da un’aura di mistero. È emigrato in Francia, ha avuto problemi di salute, ma non ha mai smesso di sorridere. Una volta, quando gli chiesero se rimpiangesse la sconfitta contro Fischer, rispose con un sorriso malinconico: “Sono felice di aver partecipato a qualcosa di più grande di me”. Se ne va così un uomo che ha saputo perdere con eleganza, insegnandoci che a volte è proprio nelle sconfitte che si trova la vera grandezza.
Sebastiano Catte, com.unica 28 febbraio 2025
*Nell’immagine in alto un dipinto dedicato alla sfida tra Fischer e Spassky custodito presso il Bobby Fischer Center in Islanda