Il fantasma di Budapest aleggia su Washington

La democrazia svuotata dall’interno: perché l’Ungheria di Orbán è diventata il laboratorio politico della nuova destra USA. L’analisi di Anne Applebaum
Nel cuore dell’Europa, Viktor Orbán ha costruito un regime che affascina la nuova destra americana. Nonostante l’Ungheria sia una nazione marginale in termini di potere militare, economico e demografico, il suo primo ministro esercita un’influenza sorprendente sul dibattito politico negli Stati Uniti. A comprenderne il motivo ci aiuta l’analisi di Anne Applebaum sul magazine The Atlantic, dal titolo eloquente: “America’s Future Is Hungary”
Il paradosso è evidente fin dalle prime righe: “Una volta percepita come il Paese più ricco dell’Europa centrale… l’Ungheria è ora uno dei Paesi più poveri, e forse il più povero, dell’Unione Europea” scrive Applebaum. Un declino misurabile in dati macroeconomici (bassa produttività, disoccupazione in crescita, inflazione fuori controllo), in indicatori sociali (sistema sanitario carente, emigrazione giovanile, tasso di natalità in calo) e in metriche politiche (ripetute violazioni dello Stato di diritto e della libertà di stampa). Eppure, proprio questo modello viene celebrato dalla destra trumpiana come esempio da seguire.
Perché? La risposta non è solo ideologica, ma strategica. L’Ungheria offre una sorta di “prova generale” di “autocratizzazione democratica”: un laboratorio in cui un leader legittimamente eletto ha trasformato gradualmente, ma sistematicamente, il sistema politico in una democrazia illiberale. Non con i carri armati, ma con decreti, leggi ad personam, propaganda e clientelismo. E soprattutto, con una narrativa fortemente identitaria, nazionalista, fondata sulla presunta difesa della sovranità e dei valori tradizionali.
Questo processo ha un nome — e un metodo. Orbán lo chiama “Sistema di Cooperazione Nazionale” (Nemzeti Együttműködés Rendszere), ma in Ungheria lo conoscono come NERistan: una rete opaca di potere, affari e fedeltà personale. Applebaum lo descrive con precisione: “Il 20% delle aziende ungheresi opera ‘non su principi di mercato, non su principi basati sul merito, ma fondamentalmente sulla fedeltà’”. Non è solo corruzione: è l’istituzionalizzazione della fedeltà come criterio di sopravvivenza economica. Un’oligarchia creata e mantenuta dal potere politico, che restituisce sostegno, consenso, e finanziamenti.
La fascinazione americana per Orbán è quindi meno paradossale di quanto sembri. Steve Bannon definisce l’Ungheria “an inspiration to the world”. Kevin Roberts della Heritage Foundation la presenta come “the model” per il governo conservatore del futuro. E Donald Trump, come segnala Applebaum, incontra Orbán ripetutamente, indicandolo implicitamente come un alleato ideale.
Ma cosa c’è dietro questa “modelizzazione”? C’è l’idea che le democrazie liberali siano inefficaci, lente, permeabili a interessi “esterni” (immigrati, ONG, media globali, élite urbane). C’è il desiderio di riformattare le istituzioni in senso verticale, eliminando o neutralizzando i contrappesi: magistratura, stampa, burocrazia tecnica. In questo senso, Project 2025 — il piano della destra radicale per un secondo mandato trumpiano — richiama da vicino molte delle misure adottate da Orbán: epurazione del servizio civile, concentrazione dei poteri esecutivi, controllo mediatico, riscrittura delle regole elettorali.
A differenza della Russia o della Cina, l’Ungheria fornisce però un vantaggio decisivo: è interna al mondo occidentale. È membro dell’Unione Europea, della NATO, riceve fondi strutturali da Bruxelles, partecipa (almeno formalmente) ai consessi multilaterali. Questo consente a Orbán di indossare la maschera della rispettabilità mentre mina dall’interno i principi stessi del sistema a cui appartiene. Una strategia mimetica, che rende più difficile la reazione internazionale. E che suggerisce alla destra americana una possibilità inquietante: si può svuotare una democrazia senza violarla apertamente. Basta controllare i gangli vitali: elezioni, media, giustizia, economia.
L’analisi di Applebaum tocca anche la dimensione simbolica del regime. Budapest, ci racconta, è piena di hotel di lusso, monumenti pseudo-imperiali, memoriali nostalgici. Tutto è stato costruito per evocare un passato glorioso e compensare un presente stagnante. L’obiettivo non è la verità, ma l’estetica del potere. E i “NER-people” — oligarchi di corte, amici di famiglia, imprenditori benedetti dal leader — si muovono in questa scenografia come attori in un film postmoderno. “They want it to look nice,” osserva un cittadino intervistato, con amara ironia.
L’America rischia di diventare questo. Non nella forma, ma nella sostanza. Come nota Applebaum con preoccupazione, “L’America sta andando rapidamente in direzione del populismo ungherese, della politica ungherese e della giustizia ungherese”. L’assalto ai media, la politicizzazione del Dipartimento di Giustizia, l’erosione delle autorità indipendenti, la crescente influenza di attori privati (come Elon Musk) su ambiti pubblici — tutto converge verso una torsione del sistema democratico.
L’Ungheria è quindi uno specchio, ma deformante. Non ci mostra solo un pericolo, ma una tentazione. Una democrazia senza libertà, un capitalismo senza concorrenza, un’identità senza pluralismo. Un sistema che si nutre di consenso fabbricato, paura culturale e impunità strutturata. Per questo, conclude Applebaum, “La stagnazione ungherese, la corruzione ungherese e la povertà ungherese sono anche nel nostro futuro”. È un monito, ma anche una diagnosi. E come ogni diagnosi, richiede una scelta: normalizzare il rischio — o affrontarlo prima che sia troppo tardi.
A cura di Sebastiano Catte/com.unica, 17 aprile 2025