Baricco: la partita più bella del mondo
Una delle dieci cose da fare prima di morire. Se Dio esiste, si dice in Argentina, domenica sarà davanti alla Tv. È il “superclàsico”, il derby tra Boca Juniors e River Plate. Lo racconta un inviato davvero speciale.
QUANDO, DOPO PENA LUNGHISSIMA, ce l’hai fatta a sopravvivere all’inverno, solo qualcosa di molto speciale può riportarti indietro in questo autunno argentino, con caduta di foglie annessa, donne che si rivestono e primi impermeabili fuori dagli armadi. Al limite, una milonga definitiva. O, come nel mio caso, una partita di calcio.
Che però – mi dico per scusarmi a me stesso – non è una partita di calcio, ma LA partita di calcio, a sentire molti, troppi, cioè tutti quelli che al momento di riassumere una vita di corbellerie si sentono serenamente in grado di dire che se ci sono dieci eventi sportivi che bisogna vedere prima di morire, nove son quelli là, ma il primo è questo: Boca Juniors-River Plate nello stadio del Boca. Il più famoso derby del mondo. El Superclásico.
Non è che io creda particolarmente a queste liste di “cose da fare prima di morire”, è ovvio: il problema è che ogni tanto credo ancora meno alla lista delle cose che faccio per vivere: quindi mi viene da esplorare i bordi della grullaggine umana. Questo, ad esempio è un bel bordo. L’ho inseguito per un po’, ci ho messo qualche anno, mi ha ritardato un po’ l’illogica discesa del River in serie B, ho aspettato che risalisse, e finalmente ho imbroccato la data giusta che sarebbe domani, oggi per chi legge (splendida espressione di un giornalismo che non esiste più): ho attraversato l’Oceano per essere alla Bombonera, alle diciotto e quindici, e portarmi a casa la partita di calcio più bella del mondo.
Eventualmente, dovesse aggiungersi qualche tango – da voyeur, si intende – non mi tirerò indietro (da tempo cerco di elaborare questa teoria: se dio esiste, sta nel millimetro di vuoto che c’è tra le scarpe luccicanti dei ballerini di tango, quando si sfiorano). Se dio esiste, credono invece a Buenos Aires, domani alle diciotto e quindici sarà davanti al televisore, come tutti tranne i sessantamila più me che saranno in quella fornace gialla e azzurra della Bombonera. Si ferma il Paese, e anche la nonna di centotré anni si schiera. Non è chiarissimo il perché, o meglio, va spiegato. A Buenos Aires ci sono più squadre di calcio che ospedali (be’, tiro a indovinare, ma siamo lì), fai venti minuti in macchina e puoi inanellare sei stadi diversi, con squadre diversi e tifosi diversi. Quindi da queste parti la parola derby dovrebbe avere smarrito da tempo il suo significato. Eppure la rivalità tra il Boca e il River è speciale, irripetibile, antichissima e insanabile. C’entra la Storia.
Era l’inizio del secolo scorso, i migranti del tempo erano italiani e la Boca, il quartiere vicino al porto, era il loro quartiere: case da schifo, le uniche che potevano permettersi. Lavoravano nei cantieri navali e spesso incrociavano gli inglesi, che da quelle parti costruivano le ferrovie e, nella rare pause, prendevano a calci un pallone. Adesso è difficile immaginarlo, ma non avevano mai visto nulla di simile: ne rimasero fulminati. Non parlo delle ferrovie: del pallone. Insomma, per farla breve, si misero a tirare su squadre una dopo l’altra. Alla Boca erano soprattutto genovesi, un po’ di lucani, pugliesi, qualche spagnolo, rari austriaci, ma forse erano tedeschi: insomma i cognomi erano soprattutto cose come Moltedo, Cirigliano, Bonino, qualche Tarrico, un Martinez ogni tanto. Va be’, tirarono su una squadra, volevano chiamarla Juventud Boquense, ma magari anche La Rosales. Ne discussero per un po’. Poi uno di loro, il Martinez, disse che al porto aveva visto una cassa con una scritta bellissima: “River Plate”. Non voleva dire nulla: era “Rio de la Plata” tradotto da un inglese imbecille. Ma suonava alla grande.
Negli stessi anni, probabilmente nel bar vicino, altri Moltedo, Cirigliano, Bonino ecc., fondarono un’altra squadra. Lì, col nome, se la cavarono in fretta: la Boca era il loro mondo, la chiamarono Boca. Poi aggiunsero Juniors perché faceva un po’ inglese. Perfetto. Si incartarono invece sui colori sociali: non avevano la più pallida idea. Allora qualcuno disse “Andiamo al porto e la prima nave che arriva guardiamo la bandiera: e quelli saranno i nostri colori”. Erano tempi di una certa poesia, nonostante la miseria e la fame, o forse proprio per quelle. Arrivò un veliero svedese, pensa te. Giallo e blu, per sempre.
Quindi erano cugini, in qualche modo, questo va saputo. E sono centosei anni che se le danno, calcisticamente parlando, e no. Ma se la rivalità è lievitata a mito è soprattutto per una circostanza particolare: pochi anni dopo la fondazione, quelli del River abbandonarono la Boca e si fecero lo stadio in un altro barrio della capitale, un po’ più elegante: Palermo. Non gli bastò: ancora qualche anno e si trasferirono a Nuñez, un posto da ricchi, zona residenziale, belle macchine, niente merda. È così che sono diventati, per tutti, “Los Millionarios”: quando lo pronunciano quelli del Boca, non è un complimento. È lo sprezzante insulto che si riserva a quello che è emigrato, ha fatto i soldi, poi è tornato al paese ma il paese gli faceva un po’ schifo e così è andato ad abitare in città. El millionario. Dato che quelli del River contraccambiano chiamando i tifosi del Boca “Bosteros” (la “bosta” è la merda di cavallo), la geografia sentimentale e sociale è molto chiara: da una parte i poveri (fieri, irriducibili e miserandi), dall’altra i ricchi (fighetti, eleganti e vincenti). Quando le cose si mettono con un tale splendido ordine, scatenare la rissa è uno scherzo.
Naturalmente, ne è derivato una sorta di DNA delle due squadre, diametralmente opposto. Le ideologie sono tramontate, come si sa, ma al River amano il bel gioco, al Boca se ne fregano e ululano per il la maglia strappata, il giocatore che esce con la testa fasciata e cose del genere. O almeno, così si raccontano. Il River vince i campionati ma perde le coppe (se la fanno sotto quando il gioco si fa duro, dicono alla Boca), il Boca perde i campionati (che sono lunghi e noiosi) e vince le coppe, dove c’è la vera epica. E si potrebbe andare avanti per un po’. Lo stadio del River è tradizionale, più grande e circondato da un quartiere per bene, quello del Boca è una costruzione assurda (ha praticamente solo tre lati) paracadutata in mezzo a case fatiscenti. Cose così. Bastano a coltivare un duello che non è mai finito.
Dato che è iniziato più di cento anni fa, di pistoleri grandiosi ne sono passati tanti: e anche lì, il DNA delle due squadre è riconoscibile. È vero che dal River è passata gente come Kempes o Passarella (per i quali il termine “fighetti” non è d’aiuto), ma il supremo eroe, da quelle parti, resta Di Stéfano, uno di quei professori che ha inventato il calcio (e poi Sivori, naturalmente, e perfino Cesarini, quello della zona Cesarini, proprio lui: quando dai il tuo nome a un pezzetto di Tempo – il quale è solo di dio, dice la Bibbia – qualcosa nella vita lo hai fatto). Dall’altra parte, al Boca, sono naturalmente più veraci: a parte l’idolo Riquelme (calciatore malinconico, signore dello Slow Foot), e la meteora Maradona (passò, lasciò il segno, ma poi se ne andò velocemente, un po’ troppo velocemente per i ricordi), gli eroi più tramandati sono due giocatori imbarazzanti: Palermo e Gatti. Palermo era una specie di Chinaglia, ma più rozzo, più inelegante, più elementare. Inguardabile, ma la metteva dentro, siempre: nessuno ha segnato più di lui con la maglia del Boca. “Olfato de goal”, spiegano qui, con un’espressione per loro normale, per me sublime. Per convincerti della sua grandezza, aggiungono che erano, nella quasi totalità dei casi, goal orrendi. Ritengono l’argomentazione definitiva. (Palermo è anche ricordato, peraltro, per aver battuto, in una sola partita, tre rigori: e averli sbagliati tutti. Un’altra volta, sempre dal dischetto, scivolò prima di battere e finì per colpire il pallone con tutti due i piedi: goal. L’arbitro è ancora lì che si chiede se nel Regolamento si parla di qualcosa del genere). Gatti invece era un portiere, e già un portiere che si chiama Gatti mi fa morire. Quelli del Boca sostengono che sia stato il primo portiere al mondo a giocare anche con i piedi, cioè a controllare, passare, dribblare con i piedi. Può darsi. Di sicuro c’è che il suo sogno era fare il centravanti. Capelli lunghi, fascia intorno alla testa, bermudoni al posto dei consueti pantaloncini: che fosse un po’ matto è cosa su cui è inutile discutere. Iniziò al River poi passò al Boca, perché era un tipo da Boca. Un volta, vedendosi arrivare, in contropiede, un avversario con le praterie davanti, trenta metri di nulla, invece che tentare l’uscita, gli andò incontro amichevolmente caracollando la testa e facendo di no col dito, urlando che era fuorigioco. L’arbitro non aveva fischiato niente, ma Gatti era talmente convincente nel suo essere un portiere che caracollava a gioco fermo, che l’attaccante avversario lasciò proseguire il pallone, si voltò e fece per tornare nella sua metà campo, tra gli sguardi esterrefatti dei compagni. Immagino che dal giorno dopo si sia dato al modellismo.
Insomma, c’è effettivamente un modo di stare la mondo da Boca, e uno da River, volendo ancora credere alle belle favole. E si scontreranno domani alle diciotto e quindici (oggi per chi legge) in una fornace gialla e blu, resa incandescente dai tifosi più rumorosi del mondo e illuminata dalla luce lontana della leggenda. Tanto per rendere la cosa più interessante, le due squadre sono in testa alla classifica, a pari punti, come in un racconto di Soriano. Ammesso che io riesca a raggiungere lo stadio e a valicare le muraglie di chorizo con cui cercheranno di distrarmi, sarò là a vedere, per poi raccontare (sul giornale di martedì, se tutto va bene, come gesto di omaggio a un giornalismo arcaico per cui il termine “attualità” indica un fastidioso limite da superare). Per ora piove in modo impietoso, ma domani tutti annunciano un “otoño dorado”.
Arbitrerà Patricio Loustau, un uomo a cui, oggi, non invidio niente.
(Repubblica/com.unica 3 maggio 2015)
Articolo di Alessandro Baricco, La Repubblica del 3 maggio 2015