Pio IX e i predatori del bambino perduto
Da La Stampa un intervento di Elena Loeventhal sulle riprese del film di Steven Spielberg dedicato al caso Mortara.
È una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c’è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell’aggettivo: l’assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata. Chissà se in questo magnifico e tragico dipinto troverà ispirazione Steven Spielberg, che fra poche settimane inizierà in Italia le riprese del film basato su questa storia da cui è rimasto folgorato appena l’ha letta.
Ordinato prete a 23 anni
Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. È ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l’Inquisizione di Bologna, città che all’epoca si trovava ancora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell’accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni – istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche – così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica.
Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all’insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo.
Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio – lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa.
«Non possumus»
Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l’uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall’altra le forze politiche e intellettuali – compresa una parte di clero – che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo.
Uno scontro di civiltà
E poi c’era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell’ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all’indomani del 20 settembre 1870 – presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio – ne avrebbe avuto facoltà.
Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d’Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell’eco di dolore e rabbia ch’essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c’è lui, quel bambino e quell’uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell’animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto.
(Elena Loeventhal, 5 gennaio 2017)